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L’utilizzo della tecnologia informatica nel mondo delle mafie non si ferma, ovviamente, ai social. Con le cosiddette criptovalute, l’universo delle valute digitali irrompe a pieno titolo anche nel riciclaggio e nell’International Money Transfer illegale.

La criptovaluta più nota è il “bitcoin”, creata si dice da un giapponese, ma ve ne sono altre. La criptovaluta si basa sulla tecnologia blockchain, cioè su una rete di nodi informatici che gestisce un registro con dati e informazioni che, essendo inseriti in una ramificazione complessa, è immodificabile. È una moneta che prescinde dai tipi di conio battuti dai vari stati, e si basa su due presupposti: l’accettazione condivisa da chi la riceve e che sia garantita in quanto immodificabile. Se il venditore è favorevole ai bitcoin, può vendere di tutto, da un giornale a un’auto. Oggi la criptovaluta la si accetta facilmente come pagamento perché è la moneta globale del futuro per gli acquisti online, perciò se questi attualmente sono sviluppati, domani lo saranno di più. Quando il soggetto ha accumulato una somma rilevante in bitcoin, può usarla – per esempio – per acquistare dollari utili a comprare una casa. Attraverso un sito di fiducia, egli scambia i bitcoin con i dollari, ed è a questo punto che interviene un fattore importante: l’anonimato che la rete garantisce, di fatto, a tutti gli utilizzatori. Chi c’è davvero dietro il venditore? E chi c’è davvero il compratore dei bitcoin? Un club cittadino? Un attore di Hollywood? Un imprenditore milanese? Un pub di Londra? Cosa nostra o la ‘ndrangheta?

Le criptovalute rappresentano l’avanguardia della nuova finanza. Consentendo di scambiare denaro in modo anonimo, sono sfruttate dalle mafie per affinare le tecniche di riciclaggio dei guadagni illeciti da reinserire nel circuito legale. La criptovaluta è conservata in casse anonime provviste di chiavi digitali impersonali, cosa che rende impossibile l’identificazione dell’utilizzatore. I clan, per di più, sminuzzano le operazioni finanziarie in versamenti di piccole quantità di moneta virtuale distribuite in portafogli anonimi, che sfuggono alle indagini delle autorità. Si pagano in bitcoin anche i traffici di armi e quello di esseri e organi umani.

Le mafie italiane, in particolare quella che è considerata la più potente e all’avanguardia tecnologica, cioè la ‘ndrangheta, si servono di broker per gestire scambi tra acquirenti e venditori in grado anche di aggirare le reti “blockchain”. La ‘ndrangheta, ad esempio, utilizza questo strumento per trasferire in Sudamerica i pagamenti di colossali partite di cocaina. La mafia tradizionale tutta coppola e lupara è superata da vari lustri. I nipoti dei capi-mafia storici calabresi studiano in prestigiose università internazionali e operano nelle principali piazze finanziare del mondo, mettendo a disposizione dell’organizzazione-madre le proprie competenze tecnologiche. I moderni boss della ‘ndrangheta hanno la Glock calibro 9 infilata nei calzoni, il codice della Santa in tasca e l’app del “Wall Street Journal” sull’iPhone.

Contro questa rivoluzione tecnologica, le armi investigative tradizionali sono spuntate. Non solo, infatti, procure e forze dell’ordine dovranno necessariamente specializzarsi nella tecnologia “blockchain”, ma serviranno normative all’avanguardia che costringano gli utenti a rivelare la propria identità e allineare le valute digitali alla legislazione antiriciclaggio.

Attenzione, però. La tecnologia non è utilizzabile solo dalla parte sbagliata del web. Le innovazioni elettroniche, infatti, consentono lo sviluppo di importanti strumenti di contrasto al crimine, come l’utilizzo dei trojan, le intercettazioni satellitari o i pedinamenti con i gps. È interessante un recente esperimento dell’università di Bolzano eseguito dal team che studia l’intelligenza artificiale. Sono partiti dall’assunto secondo cui gli affiliati ai clan modificano i dati trasmessi fra loro rendendoli, in questo modo, opachi. Attraverso i cosiddetti pizzini e le intercettazioni di vari appartenenti all’organizzazione che si scambiavano informazioni, è emerso che durante le attività investigative il focus degli inquirenti si allontana sempre più dal personaggio cui sono interessati. I dati che potrebbero condurre a lui, infatti, si fanno talmente annacquati e diffusi da rendere difficile individuarlo.

Per giungere al soggetto principale dell’indagine è necessario perciò ricostruire la rete di contatti e i singoli snodi, distinguendo chi ha ruoli di comando da chi ha gradi intermedi e puramente esecutivi. Per farlo, i ricercatori hanno ricostruito il funzionamento del reticolo di relazioni dei clan di mafia, incasellandovi migliaia di dati relativi a gruppi siciliani e calabresi, oltre che di organizzazioni criminali straniere. Basandosi su intercettazioni telefoniche e pedinamenti, con un algoritmo i ricercatori hanno generato un grafo che rappresenta l’intera rete dei clan. Avendo davanti questa rappresentazione, e grazie a una metrica di misurazione denominata Betweeness Centrality, è stato possibile osservare rapporti che altrimenti sarebbero sfuggiti, e comprendere così le reali gerarchie esistenti fra i vari personaggi grazie all’esame del flusso di informazioni fra gli affiliati (l’algoritmo non misura il percorso più breve ma quello più efficace). Ciò ha consentito di individuare la persona verso cui era convogliata la maggiore quantità di dati, quindi il boss o il mandante di un delitto. È chiaro che questa tecnologia è destinata a diventare fondamentale nelle indagini sulla criminalità di tipo mafioso, che si fonda proprio sull’interazione di una moltitudine di soggetti.

Ma a Bolzano hanno fatto di più. Hanno creato degli algoritmi che permettono di generare una rete criminale sintetica da adattare a ogni organizzazione malavitosa nei cui confronti si disponga di poche informazioni. È un format investigativo, un modello da plasmare sulle organizzazioni su cui si indaga, grazie al quale le autorità potranno individuare le strategie ottimali per operare al meglio.

In conclusione, la tecnologia informatica, se da un lato genera strumenti utili alle mafie, dall’altro può essere un alleato fondamentale nel contrasto del fenomeno mafioso. In fondo, ammettiamolo, tutto ciò non è che una delle evoluzioni dell’eterna contesa fra sbirri e ladri: cambiano le epoche, cambiano le tecnologie. Il concetto è sempre lo stesso.

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