di Marco Vitiello*

Pochi giorni fa il parlamento olandese ha approvato una proposta di legge, promossa dai partiti GroenLinks (sinistra Verde) e D66 (sinistra liberale), per rendere il lavoro da casa un “diritto legale”. Questa notizia ci induce ad alcune riflessioni sulla realtà del nostro Paese.

Partiamo subito da una constatazione certa: il lavoro da casa (o da remoto) non può essere adottato per tutte le mansioni lavorative. Questo è evidente nel dibattito (si parla per lo più di impiegati, manager e professionisti), ma anche la pandemia ha nettamente spaccato in due la popolazione lavorativa e i lavori in presenza sono anche stati assurti al livello di lavori “essenziali”. Esiste quindi di fatto una realtà lavorativa “intoccabile” per quel che riguarda il “luogo” di lavoro, ma esistono anche lavori che sono “smart” ormai da diversi lustri.

Molto prima della pandemia tante professioni si sono trasformate sulla scia della digitalizzazione, dai giornalisti agli avvocati, passando per alcune prestazioni mediche che sono state “remotizzate” con la telemedicina. Ma anche tante aziende hanno adottato il telelavoro da qualche decennio per alcune funzioni aziendali; per non parlare del mondo della comunicazione e del marketing che intreccia tantissime attività lavorative online, grazie a piattaforme virtuali che sono diventate parte integrante della realtà lavorativa, sociale ed economica; e non si può non citare il commercio online, dove ormai sono preponderanti ruoli che non richiedono la presenza lavorativa in uno spazio comune, se non virtuale.

Insomma interi sistemi e settori lavorativi, anche quello pubblico, hanno una compresenza di attività in azienda e da remoto, il che ricade necessariamente anche sul cittadino, sempre più evoluto verso la fruizione di servizi digitali, che comunque devono essere garantiti allo stesso livello, se non maggiore, di efficacia e di efficienza (e probabilmente questo è il vero problema).

Siamo quindi in un mondo del lavoro già ibrido ma continuiamo a chiederci se questo funziona solo perché creiamo rappresentazioni sociali che ci ancorano a credenze socialmente condivise, idee e valori ampiamente diffusi nel nostro sistema culturale. Una volta create nell’interazione sociale le rappresentazioni non rimangono isolate, si fondono e danno vita a nuove rappresentazioni, dando così un senso comune alla realtà. Ma per arrivare a ciò ci vuole tempo, tanto più lungo quanto più è ampio e complesso lo spaccato di realtà che si considera. Ecco perché siamo ancorati a una rappresentazione del lavoro ormai superata, ma ancora raccontata e vissuta da tanti gruppi sociali, alcuni anche palesemente reazionari.

La pandemia però ha reso più consapevoli le persone, in molti hanno sperimentato modalità di lavoro che hanno fatto emergere nuovi bisogni o comunque bisogni che prima erano meno rilevanti (ad esempio il work-life balance), quindi non considerati nel processo costante di armonizzazione dei bisogni individuali con quelli organizzativi. Siamo quindi in una fase in cui servono nuove regole per integrare le nuove forme di lavoro. Questa fase, in termini culturali, è quella della creazione dei nuovi valori che sono ancora in piena negoziazione, momento cruciale quindi anche per la promulgazione di nuove leggi, che però devono lasciare uno spazio di adeguamento e personalizzazione alle imprese e ai lavoratori, magari fornendo soluzioni, strumenti e risorse per il coordinamento del lavoro ibrido, perché questa è sicuramente la direzione verso cui stiamo andando e solo migliorando l’integrazione tra modalità di lavoro differenti potremo mantenere adeguati livelli di qualità del servizio o del prodotto.

Sul piano individuale la psicologia del lavoro ci chiarisce che il lavoro ha una matrice sociale imprescindibile, quindi sicuramente anche i lavoratori più “isolati” necessitano di momenti di scambio e confronto, che arricchiscono il potenziale dei singoli e ricadono sulla qualità del lavoro, della vita e di una evoluzione sociale orientata a un benessere sostenibile.

* Psicologo e psicoterapeuta

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