Pur essendo sardo, le prossime elezioni politiche italiane mi interessano. Mi interessano perché la Sardegna, volenti o nolenti, è in Italia. Mi interessano perché l’Italia è un paese importante dell’Unione europea e, volenti o nolenti, con l’Unione europea bisogna avere a che fare. Il governo di Mario Draghi si è caratterizzato da subito per una forte discontinuità rispetto al Conte 2. In politica estera Draghi ha preferito una genuflessione atlantista a Washington, piuttosto che un forte europeismo e l’accennato multipolarismo del governo Conte 2. Tra l’altro, la migliore politica estera repubblicana è quella di cui Conte è stato erede, non Draghi.

Il governo Draghi ha preferito un rinnovato rapporto di intimità con Confindustria e le sue richieste, piuttosto che l’attenzione al sociale (reddito di cittadinanza, aperture sul salario minimo, ristori) proprio dei governi Conte. Il governo Draghi ha preferito, utilizzando la guerra in Ucraina, attuare una netta marcia indietro sulla transizione energetica, puntando sul metano e lasciando sullo sfondo il ritorno al carbone e, perché no, la possibilità del nucleare, piuttosto che programmare e realizzare una transizione all’elettrico e alle rinnovabili. I governi Conte, con molti limiti, non si erano però mai spinti là dove si è spinto il ministro Roberto Cingolani (a proposito, non doveva essere un ministro pentastellato?). Gli esempi potrebbero continuare: da Alitalia alla (mancata) riforma delle pensioni, dal taglio del finanziamento alla scuola pubblica alla mancata lotta all’evasione fiscale e ai maxi-profitti delle multinazionali del web. Sulla caratterizzazione politica del governo Draghi un osservatore esterno ha pochi dubbi.

Ora rispondiamo alla domanda: la stabilità è un valore? In astratto no, nel caso si abbia un chiaro programma di governo, con un forte consenso popolare, sì. E’ il caso del governo Draghi? No, in quanto non è stato votato. Lo vedremo, nel caso, il 25 settembre. Allo stesso modo, rispondiamo alla domanda: l’Italia ha bisogno di riforme istituzionali? Io penso con forza che sì, l’Italia ha bisogno di profonde riforme istituzionali. Bisogna capirsi su quali: quelle che ho in testa io sono esattamente opposte a quelle di Giorgia Meloni e di chi, a destra e sinistra, vuole un soffocamento della democrazia e della partecipazione popolare.

Ora però ci sono le elezioni. Dalle letture dei giornali (vedi intervista al Corriere della Sera di Dario Franceschini del 22 luglio) pare chiaro che almeno due poli si presenteranno alle elezioni. Il primo è quello del centro-destra o, come si dovrebbe correttamente cominciare a chiamarlo, destra-centro: Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e rimasugli centristi. Il secondo è il polo di chi rivendica l’esperienza di Draghi e si presenterà come continuatore di quelle politiche: Pd, Renzi, Calenda, Di Maio, ma anche Articolo Uno, Leu e altri. Afferma Franceschini che la battaglia sarà contro il sovranismo e il populismo, nel nome della responsabilità.

Cosa farà il Movimento 5 Stelle? C’è la possibilità di fare altro? Può nascere un polo diverso? Io offro i miei due cents. L’Italia, e non farebbe male neanche alla Sardegna, ha bisogno di un raggruppamento popolare che offra risposte alla grande maggioranza della popolazione, e cioè ai lavoratori, dipendenti o autonomi, ai giovani, ai pensionati etc. Abbiamo bisogno di chi presenti un programma di governo chiaro, popolare, credibile, radicale. Si può fare. L’ha fatto Melenchon in Francia, Podemos in Spagna, e si può fare anche in Italia. Un raggruppamento che metta insieme tutti con umiltà e sapendo che ci sono diverse sensibilità: da Giuseppe Conte ad Alessandro Di Battista, da Luigi De Magistris ai comunisti e affini, da Pino Cabras di Alternativa ai “sovranisti” che vogliono salvare la Costituzione. Astenersi complottisti e settari. Il programma da cui partire sono i punti presentati da Conte negli ultimi giorni del governo Draghi. Il tempo è poco, se si vuole contare davvero.

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