I mediatori culturali in Italia sono circa 350, lavorano nelle questure, negli hotspot, dopo gli sbarchi, affiancano le forze dell’ordine facendo da ponte con le persone che arrivano per la prima volta nel nostro paese e non sanno parlare la lingua.
“Il 30 giugno alle ore 18 veniamo informati che dal giorno successivo non saremmo più dovuti andare a lavorare – racconta Ismaelali Mouktar, mediatore da diversi anni – per noi è stata una doccia fredda“. L’ultimo giorno di giugno infatti a tutte le questure d’Italia e alle zone di polizia di frontiera (hotspot) è arrivata una lettera, inviata dal Ministero dell’Interno, in cui si annunciava che dal primo luglio, non ci sarebbe più stato il servizio di mediazione linguistico culturale di Cies onlus e Oim (Agenzia delle Nazioni Unite), che da anni tramite i progetti europei Fami supportano gli uffici immigrazione. La convenzione con Cies onlus, si legge nella comunicazione, “è stata stipulata ma, essendo ancora in atto la procedura di registrazione presso la Corte dei Conti, l’impiego dei mediatori culturali è posticipato alla data di definizione della procedura predetta”. Quella con Oim invece è in fase di rinnovo e “pertanto l’impiego dei mediatori culturali, peraltro ridotti nelle unità per motivi economici, sarà possibile solo all’esito della definizione della procedura di rinnovo”, “Il coordinamento dei mediatori, insieme a noi, ha deciso di scrivere una lettera alla ministra Lamorgese – spiega Antonio Sanguinetti, attivista di Clap, le Camere del Lavoro Autonomo e Precario – perché le informazioni che abbiamo ottenuto, non sono informazioni dirette, vorremmo capire quando il servizio riprenderà, se riprenderà”. “Noi chiediamo di essere riconosciuti come figure professionali – aggiunge Abderazak Ibrahim, mediatore dal 2007 che ha cominciato la sua carriera a Lampedusa – ormai il nostro lavoro non può più essere legato solo ed esclusivamente all’emergenza”
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