di Luca M. Esposito

Da sempre l’Australia viene percepita in Italia come una terra esotica e lontana. E questo nonostante le centinaia di migliaia di italiani che vivono in quella parte di mondo e le migliaia di giovani che lì sono emigrati negli ultimi quindici anni. Non molti sanno però che in Australia sono accaduti eventi che hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia delle società occidentali e che ancora oggi continuano ad avere un influsso enorme nella vita quotidiana di tutti noi. È a Melbourne, infatti, che per la prima volta nella storia, tra il 1856 e il 1874, il movimento dei lavoratori riuscì a conquistare la giornata di 8 ore, aprendo una strada che venne poi percorsa con fatica in tutto il resto del mondo. Le lotte di quei giorni furono un pilastro per lo sviluppo della stessa cultura australiana, caratterizzata da un rispetto profondo per i diritti del lavoro e da una visione fortemente egalitaria della società.

Dagli anni 80, tuttavia, con l’avvento anche in quella parte di mondo della fede neoliberista, molte delle conquiste dei lavoratori vennero con il tempo gravemente intaccate, lasciando profonde ferite nel tessuto sociale e scatenando una crisi della partecipazione nel mondo sindacale. All’analisi di questa deriva neoliberista è dedicato un interessante libro (The future of unions and worker representation, Hart Publishing) pubblicato di recente da Anthony Forsyth, professore di Diritto del Lavoro dell’Università RMIT di Melbourne, che ripercorre la recente storia dei sindacati australiani, misurandone lo stato di salute e cercando di indicare una possibile via per il loro rilancio.

Profondo amante e conoscitore dell’Italia, Forsyth nel suo lavoro ha anche il grande merito di allargare il suo sguardo oltre l’Australia, elaborando un’approfondita analisi comparativa tra la storia e la situazione dei sindacati australiani e quella dei sindacati italiani, inglesi e statunitensi, rilevando così una serie di dinamiche comuni che, comprese e affrontate, potrebbero aprire la strada ad un comune riscatto in futuro.

La cosa che più salta all’occhio, leggendo la storia dei sindacati dei tre paesi anglosassoni in confronto all’Italia, è il differente impatto che le politiche antisindacali hanno avuto sulle iscrizioni alle sigle di rappresentanza dei lavoratori. A parte gli Stati Uniti, dove anche nell’età d’oro dei sindacati il numero di iscritti non ha mai superato il 35% della forza lavoro ed è oggi al livello minimo del 10,8%, anche in Paesi dalla forte tradizione sindacale come Gran Bretagna e Australia il numero degli iscritti ha subito un costante declino. In Gran Bretagna oggi solo il 23,7% dei lavoratori è iscritta al sindacato rispetto al 55% del 1979, mentre in Australia, dove nel 1953 i lavoratori sindacalizzati erano addirittura il 63% della forza lavoro, si è scesi nel 2020 al 14,3%.

In Italia al contrario, sottolinea Forsyth, ancora il 34,4% della forza lavoro fa parte di un sindacato (nel 1977-78 era al 50-55%) e le tre sigle confederali sono riuscite a mantenere un ruolo di primo piano nella società italiana. Questo è dovuto non solo all’esperienza dei sindacati dei pensionati, che hanno un peso decisivo nel numero delle iscrizioni (nel 2016 rappresentava il 44% degli iscritti), ma anche alla capacità dimostrata dai sindacati italiani, in particolare quelli di base, di coinvolgere attivamente gruppi di lavoratori emarginati, come gli emigrati o gli addetti del settore della logistica e della gig economy.

Tra le molte interessanti soluzioni proposte da Forsyth per rivitalizzare il movimento sindacale c’è quella di esplorare nuove forme di organizzazione, innovando l’offerta di adesione adattandola alle diverse necessità dei settori e dei lavoratori, attirando i giovani che vivono in un mercato del lavoro fortemente precarizzato. Per fare questo occorre anche inglobare forme di sindacalismo digitale, come la digital picket line sperimentata in Australia durante la pandemia.

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