L’incidente sul tetto di uno dei serbatoi di greggio più grandi d’Europa, dentro la Raffineria Api di Falconara Marittima, in provincia di Ancona, non fu casuale e la gestione dell’impianto era improntata al risparmio, evitando ispezioni e manutenzioni che avrebbero comportato un esborso di almeno 8 milioni di euro. Ne è convinta la procura anconetana, che al termine di un inchiesta iniziata nel 2018 dopo le fortissime esalazioni provocate dall’inclinamento del tetto galleggiante che innescò la fuoriuscita di una nuvola di gas idrocarburici e la conseguente percezione dei miasmi da parte della popolazione della zona, oltre al serio pericolo per la sicurezza derivante dal rischio di esplosioni. Sono 18 le persone indagate che dovranno rispondere, a vario titolo, di disastro ambientale, gestione illecita di ingenti quantitativi di rifiuti speciali, getto pericoloso di cose, lesioni personali a carico dei cittadini.

Il serbatoio TK61, che ha una capacità di 160mila metri cubi di petrolio greggio, si inclinò l’11 aprile 2018 e da quel momento partirono le indagini, condotte dal Noe dei carabinieri di Ancona, che contestano ad alcuni indagati anche delitti contro la pubblica amministrazione, la violazione della normativa sulla gestione degli impianti a rischio di incidente rilevante e la responsabilità amministrativa degli enti nei confronti della società. E infine reati di abuso d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio e istigazione alla corruzione, da parte di un pubblico ufficiale al vertice dell’organo tecnico deputato al controllo.

L’inchiesta è stata condotta dagli inquirenti con l’ausilio di numerosi consulenti tecnici e attraverso sopralluoghi, campionamenti analitici, osservazioni dirette, ascolto di testimoni e persone informate sui fatti, consulenze in campo ambientale, acquisizione ed analisi di documenti. Sono state ricostruire le modalità gestionali dello stabilimento caratterizzate – secondo gli inquirenti – da ripetute violazioni sia delle prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzativi sia della normativa di settore. Sono state scoperte, sempre secondo gli investigatori, carenze strutturali negli impianti, con diffusione incontrollata e prolungata nell’ecosistema di inquinanti pericolosi per l’ambiente e per l’uomo. Nel territorio di Falconara Marittima – già in parte censito nell’elenco dei Siti di Interesse Nazionale per le bonifiche – si è registrato un significativo inquinamento ambientale, sono convinti gli investigatori, causato dalle attività della Raffineria che, pur operando sulla scorta dell’Autorizzazione Integrata Ambientale del ministero dell’Ambiente ottenuta nel 2018 ne avrebbe violato le prescrizioni e i limiti di emissione.

L’inquinamento e la perdurante dispersione di prodotti nel suolo, sottosuolo, nelle acque sarebbero stati principalmente provocati dallo stato di deterioramento degli impianti e dalle gravi carenze riscontrate nell’ispezione e manutenzione dei serbatoi di grandi dimensioni e degli impianti di trattamento delle acque di scarico, di quelle di falda e della rete fognaria oleosa della Raffineria. Militari del Noe e pm hanno riscontrato anche l’omessa comunicazione da parte della società degli incidenti avvenuti, tra cui proprio quello accaduto l’11 aprile 2018. La compromissione della qualità dell’aria delle zone limitrofe all’impianto petrolchimico falconarese è stata invece provocata dalle ripetute emissioni in atmosfera di gas derivanti dalla lavorazione degli idrocarburi, con il rilascio di ossidi e biossidi di azoto e anidride solforosa a sua volta provocato dalla combustione di Gpl “fuori specifica”.

Il gas, non essendo commercializzabile a causa dell’alta concentrazione di zolfo e del residuo all’evaporazione, è stato più volte in più giornate bruciato – secondo l’accusa – nella torcia idrocarburica della Raffineria, al solo scopo di disfarsene. Un fatto che sarebbe avvenuto a partire dal 20 maggio 2020. Gli inquirenti sostengono che tutto ciò dipendesse dalla volontà di risparmiare sui costi per l’ispezione, la manutenzione e l’adeguamento degli impianti in questione. Solo la bonifica di uno dei serbatoi oggetto delle indagini avrebbe infatti comportato un esborso pari a oltre 2 milioni di euro, mentre lo smaltimento dei rifiuti liquidi costituiti dalle acque di processo avrebbe comportato dei costi di almeno 8 milioni di euro all’anno. Inoltre i mancati controlli hanno permesso di non compromettere l’attività produttiva, rallentando i processi di lavorazione che, in caso di esecuzione delle dovute opere di ispezione e manutenzione avrebbero subito un’inevitabile riduzione.

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