Quando quindici anni fa entravo a scuola, c’era il collega che scherzando mi diceva: “Non ti hanno ancora arrestato?” Non era per nulla facile parlare dell’Ilva. E io non smettevo di occuparmene, a mio rischio e pericolo. Ora quella battuta ironica non me la fa più nessuno, anzi. Dieci anni fa, il 26 luglio 2012, venivano arrestati i dirigenti degli impianti più inquinanti dell’Ilva, in un’operazione spettacolare che lasciò tutti senza parole.
Se oggi mi chiedono qual è la differenza fra il presente e il passato, direi che da quel giorno abbiamo conquistato la piena libertà di dire che l’Ilva inquina. Ci siamo liberati dal timore reverenziale. Per alcuni è così scontato non soffrire più di quel timore reverenziale che non ci fanno neanche caso ma io ricordo quanto fosse difficile prendere la parola. Per anni abbiamo avuto una linea rossa che divideva la paura dal coraggio e in tanti non la varcavano per quieto vivere o per paura. Questa è una delle differenze fra il passato e il presente.
Il tornado giudiziario del 26 luglio 2012 fu memorabile e da lì in poi derivarono altre iniziative che trasformarono Taranto in un laboratorio nazionale di cittadinanza attiva e di giustizia ambientale. Il 26 luglio 2012 Taranto esplose. Fu in serata che si diffuse la voce dell’ordinanza di sequestro degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva. A firmare l’ordinanza era la Gip Patrizia Todisco. L’ordinanza portava la data del 25 luglio ma solo il giorno successivo si diffusero i dettagli di quel provvedimento che avrebbe dovuto portare al fermo dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico. Sbigottimento, incredulità, mai vissuta un’atmosfera elettrizzante e surreale come quella. Gli impianti non dovevano più produrre coke, ghisa e acciaio e il camino E-312 dell’agglomerato non avrebbe dovuto più sputar fuori la diossina. La tensione era altissima: i lavoratori si mobilitarono, gli ambientalisti pure.
Le reazioni politiche di quel 26 luglio di dieci anni fa? Nichi Vendola parlò di un “industrialismo cieco” ma anche di un “ambientalismo fondamentalista e isterico”. Accanto al sequestro senza facoltà d’uso degli impianti inquinanti scattarono anche arresti eccellenti che riguardarono Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa fino al maggio 2010, e il figlio Nicola Riva, subentrato nella carica. Stessa sorte per alcuni dirigenti di area.
Il Fatto Quotidiano fece delle interviste a caldo a vari operai che da lì a poco avrebbero occupato i punti strategici della città, bloccandone le entrate e le uscite. Fu un’operazione vergognosa di contrapposizione della parte più rozza della classe operaia alla circostanziata ordinanza della magistratura ma ad agosto la situazione cambiò e i cittadini che appoggiavano la magistratura riconquistarono la piazza, con fiera determinazione. Alcuni operai chiesero scusa e si unirono ai cittadini. Vi fu una maturazione, un processo di presa di coscienza. Giorni indimenticabili che avrebbero cambiato la storia della città. Una lotta non violenta che continua ancora oggi. Quegli impianti, mai fermati, sono ancora sotto sequestro e per questa ragione il futuro di Acciaierie d’Italia, che li gestisce, è altamente accidentato. Chi acquisterebbe impianti sotto sequestro?
Noi cittadini questa sera alle 19.30 nel quartiere Tamburi, in via De Vincentis, sotto la “Targa della maledizione”, reciteremo poesie e terremo un reading che partirà dalle parole con cui terminava l’ordinanza del Gip Patrizia Todisco: “Non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico”.
A dieci anni quelle parole risuonano ancora attuali e urgenti.