Dieci anni di parole, promesse e decreti. La storia politica dell’ex Ilva di Taranto è un susseguirsi di proclami e fallimenti. Trionfali i primi, sotterrati e quasi impercettibili i secondi. Eppure un decennio dopo il sequestro della fabbrica, dell’azione dei diversi governi sulla questione “salute e lavoro” restano solo gli annunci e il fiume di denaro impiegato dallo Stato. Da Monti a Letta, da Gentiloni a Renzi fino a Conte e Draghi, ogni esecutivo ha avuto tra le mani il dossier Ilva e ha tentato di mettere una pezza. Alcune sono state persino peggiori dei buchi. Ma a dirla tutta, come già più volte raccontato da ilfattoqtuidiano.it, la storia dei decreti “salva Ilva” comincia ben prima del 2012.
Il primo provvedimento arriva, infatti, nell’estate 2010 proprio mentre a Taranto è esplosa l’emergenza benzo(a)pirene: i livelli di emissione sono a quote spaventose al punto che Arpa Puglia, tramite il suo direttore generale Giorgio Assennato, propone che senza misure di contenimento la fabbrica debba ridurre i livelli di produzione. I Riva schierano tutto l’arsenale politico di cui dispongono e ad agosto 2010 ottengono dal ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, Stefania Prestigiacomo, un provvedimento che autorizza nelle città con più di 150mila abitanti l’innalzamento dei limiti di emissione per questo inquinante cancerogeno. Solo qualche mese prima, l’allora capo della segreteria tecnica del ministro, Luigi Pelaggi, aveva chiesto e ottenuto da Fabio Riva una donazione di 5mila euro a favore della “Fondazione Liberamente”, costituita nel 2010 dagli ex ministri Prestigiacomo, Maria Stella Gelmini e Franco Frattini, oggi al vertice del Consiglio di stato. Nessuno dei tre è mai stato accusato di nulla e quella donazione non è un reato.
MARIO MONTI
La vicenda Ilva esplode nelle mani di Mario Monti, presidente del Consiglio scelto da Giorgio Napolitano dopo le dimissioni a novembre 2011 di Silvio Berlusconi. A luglio, quando il sequestro della fabbrica infiamma le piazze a Taranto e nelle tv nazionali, è il suo ministro dell’Ambiente a giocare da subito un ruolo di primo piano. Fu proprio Corrado Clini ad annunciare ricorso contro il decreto del gip Patrizia Todisco e ad annunciare il decreto che avrebbe consentito a Ilva di continuare a produrre in attesa di adeguarsi all’Aia rivista nel 2012. Anche l’allora ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera si schiera contro la magistratura: “È assolutamente necessario evitare la chiusura e lo spegnimento degli impianti, cosa che causerebbe danni irreparabili dal punto di vista economico, occupazionale e sociale. Nulla sarà lasciato intentato per evitare un tale evento”. Fin dai primi giorni, quindi, il leitmotiv del governo era chiaro: evitare la chiusura a ogni costo. L’esecutivo varò il decreto che consentiva alla fabbrica di produrre nonostante il sequestro e i risultati delle perizie. Monti, qualche giorno dopo, provò a mediare dicendo che l’Italia non poteva permettersi di apparire come “un Paese dove non sia possibile conciliare il rispetto assoluto della magistratura, la tutela dell’occupazione, la protezione della salute e dell’ambiente, il mantenimento di un settore strategico come quello dell’acciaio”, salvo aggiungere che se l’Ilva fosse stata chiusa l’Italia avrebbe richiato di rimanere senza acciaio.
ENRICO LETTA
Il Governo di Mario Monti nominò nel 2012 anche un garante per l’Ilva, Vitaliano Esposito, ma sarà silurato pochi mesi dopo, quando l’eredità Ilva passò nelle mani del nuovo presidente del Consiglio Enrico Letta che sceglierà come commissario straordinario Enrico Bondi, l’uomo che fino a qualche giorno prima era l’amministratore delegato dell’Ilva. Bondi ottiene dal governo il potere di aumentare il capitale sociale dell’Ilva Spa chiedendo al gruppo Riva di partecipare e, in caso di rifiuto, il commissario avrebbe potuto ricorrere a investitori terzi o chiedere all’autorità giudiziaria lo svincolo del tesoretto da oltre 1 miliardo di euro sequestrato ai Riva dalla procura milanese in un’altra inchiesta giudiziaria. Soldi che saranno inseguiti disperatamente fino al “no” dei giudici svizzeri: poi sarà una transazione a consentire allo Stato di mettere le mani su una parte di quei soldi. Ad agosto 2013, il governo Letta, con un nuovo decreto concede all’Ilva l’autorizzazione a smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento: un “regalo” che consente all’azienda ormai gestita dallo Stato di risparmiare milioni di euro.
MATTEO RENZI
“Il primo decreto dell’anno, il numero 1/2015 riguarda Taranto. Questa città bella e disperata è il punto di partenza del nostro anno. Salvataggio di Ilva insieme al salvataggio dei tarantini e dei loro figli”. Il nuovo premier Matteo Renzi pronuncia queste parole a gennaio 2015, poco dopo aver firmato un altro decreto Salva Ilva: “Dopo anni di annunci e di occasioni sprecate abbiamo questa grande responsabilità e ce la prendiamo tutta, a viso aperto. Il 2015 – aggiunge Renzi – dell’Italia parte da Taranto”. Il nuovo premier e il ministro dell’ambiente Gianluca Galletti annunciano che l’Ilva entra in amministrazione controllata: via Enrico Bondi, a capo della struttura arriva Pietro Gnudi. Il nuovo provvedimento di Renzi allunga dei tempi di adeguamento all’Aia e l’Ilva, quindi, può continuare a produrre e inquinare. E quando a giugno 2015 nell’Altoforno 2 della fabbrica muore ucciso da un getto di lava l’operaio 35enne Alessandro Morricella e la procura sequestra l’impianto perché privo dei dispositivi di sicurezza, il governo Renzi non perde tempo e firma un nuovo decreto che permette di utilizzare l’impianto anche se insicuro per gli operai. La Consulta lo dichiarerà illegittimo solo anni dopo. Ma il governo Renzi firma anche altro: un ulteriore decreto concede l’immunità penale ai gestori della fabbrica e ai futuri acquirenti: un salvacondotto per limitare sempre più l’azione della magistratura.
PAOLO GENTILONI
La scelta del governo Renzi dell’immunità penale non è casuale: l’ex Ilva di Taranto è ormai in vendita. Le cordate interessate sono due: la prima è guidata dalla multinazionale ArcelorMittal e la seconda dal colosso dell’acciaio Jindal. Il governo guidato da Paolo Gentiloni, con il suo ministro Carlo Calenda, nonostante un comitato di tecnici avesse valutato come migliore offerta quella proposta da Jindal sotto il profilo “tecnico”, consegnano la fabbrica di Taranto alla multinazionale franco-indiana. “Noi pensiamo – commenta Gentiloni – di aver fatto molto in questo lavoro e ho visto un lavoro importante. Ora abbiamo un percorso su cui il governo mette tutto il proprio peso in termini di garanzie occupazionali, di salute e di ambiente e per ciò ritiene utile il confronto con voi, con gli aggiudicatari e con i commissari”. A quella scelta, però, il governatore di Puglia Michele Emiliano e il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci si oppongono e propongono ricorso al Tar: Gentiloni e Calenda lanciano decine di appelli perché quell’atto venga ritirato. E alla fine convincono il primo cittadino dopo una visita a sorpresa del ministro nel municipio ionico.
GIUSEPPE CONTE
Nel 2018 il M5s vince le elezioni politiche: a Taranto fa il pieno di voti promettendo la chiusura delle fonti inquinanti dell’ex Ilva, la bonifica e la riconversione. Annunciano anche di voler annullare la gara di assegnazione ad ArcelorMittal ma, quando parte il governo con la Lega Nord di Matteo Salvini, le cose diventano più complicate: il ministro dello Sviluppo Eocnomico Luigi Di Maio accusa il governo precedente di aver messo a segno il “delitto perfetto”: la gara non si può azzerare. A ottobre 2018, quindi, proprio Di Maio chiude l’accordo con i nuovi padroni della fabbrica: sulla carta tutti i posti di lavoro sono salvi. Sulla carta però. “Si è cercato di raggiungere il miglior risultato possibile nelle peggiori condizioni possibili”, spiega Di Maio. Ma non è vero perché poco dopo le condizioni peggiorano ancora. Le aziende dell’indotto rischiano il collasso perché Arcelor non paga le fatture per tempo e quando il Parlamento abolisce l’immunità penale annuncia la sua fuga dall’Italia. Da ottobre 2019 a capo dell’azienda che gestisce la fabbrica di Taranto è arrivata Lucia Morselli: le sue dichiarazioni sono forse le più emblematiche per comprendere la confusione che da sempre regna intorno allo stabilimento siderurgico. E quando spiega le scelte della multinazionale di voler lasciare Taranto, lo fa senza giri di parole: “Una delle condizioni che era considerata essenziale, quando abbiamo firmato il contratto d’affitto, era l’immunità penale – aggiunge Morselli – Un’altra condizione era lo stato degli impianti che non era quello che ci era stato prospettato”. Fino a qualche settimana produrre in quell’impianto, specifica, “non era un crimine ora lo è”. Poi il governo di Giuseppe Conte interviene: annuncia l’ingresso dello Stato nella società con Arcelor e per la Morselli qualcosa cambia. Più di qualcosa. Qualche mese dopo, dal salotto di Bruno Vespa a “Porta a Porta” parla degli impianti di Taranto dicendo: “Credo che dobbiamo essere tutti orgogliosi di questo impianto, il più bell’impianto d’Europa, il più moderno, il più potente, tutti ce lo invidiano. E credo che sia un privilegio essere a lavorare lì”. E sulla carta viene impostata anche la riconversione: “Dopo Alitalia e Aspi, ci si impegni sul dossier Ilva. La strada indicata è quella giusta: un grande polo siderurgico per l’acciaio green“, diceva l’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti.
MARIO DRAGHI
Il Governo dei Migliori, che trasforma il ministero dell’ambiente nel ministero della Transizione ecologica, sembra avere più dubbi dei predecessori sull’Ilva. Nonostante gli allarmi per la sicurezza lanciati dai sindacati e quelli per il nuovo aumento delle emissioni, quando la crisi energetica e la guerra in Ucraina fanno capolino, il premier non solo annuncia il ritorno al carbone, ma dichiara più volte che l’Ilva deve aumentare la produzione d’acciaio. A dieci anni di distanza dal sequestro, insomma, il leitmotiv è sempre lo stesso: la fabbrica deve produrre. A ogni costo.