Pubblichiamo un intervento del ricercatore Inapp Massimo De Minicis, esperto di mercato del lavoro*
Nell’azione politica finalizzata a garantire un aumento del salario minimo legale negli Stati Uniti a 15 dollari l’ora, in Spagna a 1000 euro mensili e in Germania a 12 euro l’ora, le forze politiche progressiste al governo hanno agito su un percorso culturalmente solido, non solo economicamente ma anche empiricamente. Uno degli obiettivi dell’istituzione del salario minimo legale è infatti quello di determinare un aumento di posti di lavoro caratterizzati da sostanziali livelli di qualità, limitando la cattiva occupazione che rappresenta un male che da anni minaccia la stabilità di molte democrazie occidentali.
Il tema di un salario minimo legale non lascia più scie di estremo scetticismo tra la maggioranza degli economisti. Inizialmente, infatti, nell’analisi delle dinamiche nel mercato del lavoro, molti ipotizzavano un naturale equilibrio tra domanda e offerta. Tale prospettiva neoclassica, in parte sostenuta anche da economisti neocorporativi, prevedeva che un salario minimo più elevato fissato da dinamiche esterne al mercato avrebbe inevitabilmente intaccato tale equilibrio, riducendo inevitabilmente i livelli di occupazione, soprattutto per i lavoratori con competenze e qualifiche più basse. Diversi studi empirici, soprattutto dalla fine degli anni ’80, non sono riusciti, però, ad evidenziare tali fenomeni. Un’interessante e nota analisi è ad esempio quella realizzata da David Card (premio Nobel per l’economia) dell’Università della California, Berkley e da Alan Krueger dell’Università di Princeton (in parte basata sul lavoro realizzato con Lawrence Katz). Il loro studio – riportato nel libro “Mito e misurazione: la nuova economia del salario minimo” – ha rilevato che la riduzione dell’occupazione non ha seguito gli andamenti del salario minimo legale negli Stati Uniti; anzi in alcuni casi, l’occupazione è aumentata anche quando sono aumentati i livelli minimi salariali.
Con una ricerca pioneristica basata su metodi empirici controfattuali (analizzando sia soggetti sottoposti all’aumento salariale, che soggetti non toccati da tale politica) gli autori mettono alla prova la teoria economica neoclassica, utilizzando i dati di una serie di aumenti del salario minimo legale in diversi contesti e fasi, l’aumento del salario minimo del New Jersey nel 1992, quello del 1988 in California e quello del 1990-91 a livello federale. Nei diversi casi vengono presentate una serie di prove empiriche che dimostrano come l’aumento del salario minimo comporta un aumento della retribuzione ma nessuna perdita di posti di lavoro. Nell’analisi vengono documentati anche gli effetti del salario minimo legale sul reddito familiare, sulla diminuzione della povertà e sulla valutazione del mercato azionario dei datori di lavoro caratterizzati da retribuzioni basse.
Sebbene questi risultati abbiano determinato un acceso dibattito, molti economisti ortodossi li hanno visti come una violazione delle leggi economiche fondamentali: se il prezzo sale, la quantità di domanda deve inevitabilmente diminuire, ma per diverse ragioni le leggi sul salario minimo non determinano questi effetti. Questa evidenza appare riferibile non solo agli studi condotti negli Stati Uniti, ma anche a quelli realizzati nel Regno Unito e in altri contesti. Se il salario minimo non riduce l’occupazione si può invece dedurre come i grandi datori di lavoro che presentano forme retributive basse e radicalmente contingenti hanno un enorme spazio di mercato, garantito dai bassi costi del lavoro, su cui acquisiscono alti livelli di profitto schiacciando la concorrenza.
Inoltre, un interessante studio di David Acemoglu evidenzia come tetti salariali legali uniti ad un ampliamento delle indennità per la disoccupazione tendono a scoraggiare l’aumento di una occupazione qualitativamente bassa, determinando stimoli per la creazione di posti di lavoro migliori. Dinamica estremamente importante in una fase in cui le opportunità di lavoro stanno diminuendo soprattutto per gli individui con basse qualifiche (privi di laurea) – che sempre più si riversano nella economia delle piattaforme o nelle forme contrattuali a zero ore – dove, senza un intervento esterno, la determinazione di minimi salariali qualitativamente accettabili è pressoché irrealizzabile. Altri economisti contestano come i salari minimi legali potrebbero scoraggiare la formazione e altri investimenti nella produttività dei lavoratori. Ma, anche in questo caso, una interessante analisi di Acemoglu e Pischke “The Structure of Wages and Investment in General Training“, dimostra come questa preoccupazione sia sovradimensionata. Quando i datori di lavoro guadagnano molto possono sopportare aumenti del salario minimo senza dover licenziare i propri dipendenti. Lo studio dimostra, anche, che quando un datore di lavoro deve pagare ai suoi lavoratori salari più alti, ha stimoli maggiori per aumentarne la produttività e professionalità.
Infine, appare utile evidenziare come le dinamiche che spingono sempre più democrazie occidentali nella determinazione di salari minimi legali non sono solo economiche ma anche profondamente etiche. Come sottolineano Acemoglu e Robinson nel libro “The Narrow Corridor“, anche se la maggior parte dei lavoratori in Occidente non ha più bisogno di preoccuparsi della presenza di forme brutali di coercizione nei luoghi di lavoro, l’assenza di sicurezza sulla continuazione di un rapporto di lavoro e di una retribuzione sufficiente evidenzia ancora la presenza di relazioni che minacciano la piena espressione della libertà individuale. Naturalmente il tema in discussione non è recente.
Uno degli architetti del Welfare state britannico universalistico, William Beveridge sosteneva che “Libertà indica un valore più alto della libertà dal potere arbitrario dei governi. Significa libertà dalla servitù economica e dal bisogno, dallo squallore e da altri mali sociali; significa libertà dall’arbitrio del potere in qualsiasi forma questo si presenti. Un uomo affamato non è libero”. Allo stesso modo, l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 afferma che “ogni persona che lavora ha diritto a una giusta e favorevole remunerazione assicurando a sé stesso e alla sua famiglia un’esistenza degna della dignità umana”. In quest’ottica, gli sforzi dei democratici americani e delle coalizioni progressiste al governo in Spagna e Germania nell’aumentare il salario minimo legale possono essere interpretati come un più generale rilancio di un’agenda politica sociale, finalizzata a rinsaldare quello stretto corridoio verso la libertà, che rappresenta una tendenza vitale per le democrazie occidentali.
m.deminicis@inapp.org
*Le opinioni espresse nell’articolo sono personali e non rappresentano necessariamente quelle dell’istituto di appartenenza