Addosso alle immagini. Mai titolo di libro fu più appropriato. Luc Dardenne, il fratello più calvo e più giovane della coppia di registi belgi (l’altro è Jean-Pierre) che hanno trasformato il fare cinema tra gli anni novanta e duemila proprio stando appresso ai personaggi in scena con la macchina da presa, è l’autore in prima persona, appunto dopo appunto, considerazione personale dopo citazione letteraria o giudizio su un film, di questo diario minimo alla Serge Daney, di questo biopic vagamente dietro le quinte, tra il 1991 e il 2005, edito da Il Saggiatore.
A differenza di tanta saggistica sul regista, pardon registi, di culto, l’idea di un avanzamento cronologico (i salti temporali sono anche ampi, del resto) personale e quotidiano tra creazione e riflessione è una di quelle ricette che affascinano e ammaliano il lettore possibilmente dei film girati dai Dardenne stessi. Già, se si pensa che la loro semisoggettiva (involontaria, pare) ancora è punto di vista tecnicamente e filosoficamente ignoto e indistinguibile per le masse spettatoriali, allora sfogliare Addosso alle immagini può risultare un excursus su quel magma profondo e ribollente della creazione artistica nel suo farsi senza programmaticità. A quanto pare, come sottolinea spesso Luc, in questi appunti sparsi e disorganici, i Dardenne fuggono, un po’ come i loro personaggi di scena, dal documentarismo e approdano alla cosiddetta finzione con sguardo ai margini della società contemporanea, costruendo e sviluppando “movimenti”.
Non la classica narrazione causa-effetto, niente intreccio classico (“l’intreccio è il personaggio”) ma linee visive inusuali che permettono di fondere script (a proposito è Luc che scrive tutto, poi Jean-Luc giudica, corregge e rilancia) e stile di ripresa come appunto solo Dogma 95 attuò sistematicamente negli anni in cui i Dardenne esordirono con La promesse (1996). Tra l’altro Luc conferma, in un appunto del libro, che quando girarono il loro primo film di finzione non erano a conoscenza delle regole pauperistiche e veriste del movimento danese all’epoca capeggiato da Lars Von Trier.
Ad ogni modo tra una visione e l’altra (solo elogi a Fritz Lang, Moretti e una stroncatura sacrilega a Kieslowski della trilogia), tra un frammento letterario e l’altro (l’elogio a Le particelle elementari di Houellebecq e del suo “grande regno del nichilismo” è da segnare) che sembrano illuminare il percorso artistico nel suo farsi, Luc Dardenne mostra questo incredibile e spirituale incatenarsi alla gemmazione del proprio cinema, questo procedere per tentativi, suggestioni, per stesure (siamo sempre attorno alla decina per ogni film), sgrassare, togliere, scalpellare, a cui fa seguito un vuoto che si crea tra un film e l’altro, ad un prosciugamento psicofisico, mentale che è tutt’uno con l’anelito artistico, sofferenza profonda propria dei cineasti della trascendenza – Ozu, Dreyer, Schrader.
Infine, anche se poi è il nucleo pulsante e intrigante del volume, c’è un ragionare impulsivo, un naturale e necessario discostarsi dalle imposture di chi crea immagini su commissione o con artificiosa semplificazione, per trovare una propria strada espressiva che si riassume in quella macchina da presa leggermente spostata alle spalle dei propri protagonisti, azionata per febbrili piani sequenza, risultato del caso e delle prove. “La posizione della macchina da presa non è qualcosa che si sa in anticipo. Ce ne rendiamo conto poco alla volta, dopo aver cercato – spiega Luc alla curatrice del volume Stefania Ricciarsi – per un mese proviamo tutte le inquadrature con gli attori e troviamo le posizioni della macchina, i movimenti della macchina rispetto alle posizioni e ai movimenti dei corpi degli attori in uno scenario. E ci diciamo che quando si prova, si cerca qualcosa: una certa inquadratura, una ripresa da una certa angolazione”. Qualche curiosità per i fan più accaniti: il soggetto di Rosetta (nome proprio che si rifà nientemeno che a Rosetta Loy) prevedeva una protagonista sindacalista (pensate un po’); Il ragazzo con la bicicletta s’intitolava inizialmente Pitbull; ad una proiezione de Il figlio a Tokyo intervenne un signore a cui avevano ucciso il figlio e disse “In Giappone si dice che un figlio cresce guardando la schiena del padre (come nelle inquadrature del film ndr). Chiudiamo con una frase da L’educazione sentimentale di Flaubert che si appunta Luc, e a cui aggiunge una riga di commento. “Frederic rabbrividì, preso da inquietudine senza motivo”. “Come filmare una cosa del genere? È possibile? Dove posizione la macchina da presa?” Signore e signori ecco il cinema dei fratelli Dardenne.