“Se la montagna piange, la pianura non riderà”.

Le riserve d’acqua della montagna si sono fortemente assottigliate con laghi alpini in difficoltà, ghiacciai in ritiro, fonti prosciugate, rifugi a rischio chiusura anticipata per la siccità; le ricadute sulla pianura portano ad invocare lo stato di calamità naturale con lo spauracchio di una crisi della produzione alimentare e in generale dell’economia. Ma quanto c’è di naturale in questa calamità?

I ghiacciai sono in ritiro, ma certo non li abbiamo aiutati, anzi. In Marmolada si è praticato lo sci estivo fino al 2003, allo Stelvio quest’anno dopo la regolare apertura della stagione si è dovuto chiudere solo per le condizioni climatiche, non certo per scelte ambientali; se poco o nulla possiamo fare nell’immediato contro l’effetto serra, l’azione erosiva dei mezzi battipista per la preparazione del “terreno di gioco” può e deve essere fermata almeno d’estate. L’eventuale copertura artificiale, che interessa meno dello 0,08% dei circa 360 kmq dei ghiacciai italiani, viene eseguita su specifiche porzioni di ghiacciai a tutela di interessi economici e turistici locali; coprire i ghiacciai non significa salvarli, anzi questa pratica presenta pesanti controindicazioni.

L’acqua della montagna non è solo quella che si vede, ma anche e soprattutto quella nascosta. Nel 1970, durante i lavori di scavo per la realizzazione del traforo del Gran Sasso, una “talpa” bucò l’enorme serbatoio sotterraneo di acqua presente nelle viscere della montagna: la parte bassa della città di Assergi fu allagata, il livello della falda acquifera si abbassò di 600 m e la portata delle sorgenti del Rio Arno e del Chiarino fu quasi dimezzata. I percorsi e gli accumuli dell’acqua nelle cavità carsiche delle montagne non sono decifrabili, nella realizzazione della seconda canna del traforo – funzionale all’accesso ai nuovi laboratori di fisica nucleare – per fortuna non vi furono altri sversamenti, e solo una strenua resistenza popolare ha impedito la realizzazione di una terza canna giustificata come “uscita di sicurezza” dai laboratori.

Non è andata meglio trent’anni dopo al Mugello durante i lavori della Tav, 73.3 km di binari sotto gli Appennini che collegano l’Emilia Romagna e la Toscana: prosciugati 81 corsi d’acqua, 37 sorgenti, una trentina di pozzi e cinque acquedotti con un inevitabile strascico di vicende giudiziarie che non restituiranno l’acqua perduta. Trascorsi altri vent’anni, la musica non cambia; il nuovo progetto di bypass per l’attraversamento dell’alta velocità ferroviaria a Trento mette a rischio la rete idrica locale intercettando 222 sorgenti censite lungo il suo tracciato.

E’ vero che gli acquedotti urbani sono dei colabrodo, è vero che le precipitazioni sono sempre più scarse tanto da aver coniato il nuovo detto “non piove, governo ladro!”, ma forse sarebbe utile un ragionamento più a monte (nel vero senso della parola); la visione comune è che lo sviluppo delle tecnologie ci aiuterà a risolvere tutti i problemi. Solo lo scorso anno alcuni colossi del mondo agricolo, dell’energia e della finanza pubblica, come Coldiretti, Enel, Eni e Cassa Depositi e prestiti, hanno proposto al governo di investire 1,8 miliardi di euro del Pnrr regimentando le acque di montagna e raccogliendole in mille laghi artificiali, ai fini di garantire disponibilità idrica all’agricoltura e alla produzione di energia green, sostenendo perfino che ciò migliorerebbe il valore paesaggistico dei territori quando invece si tratterebbe di un potenziale fattore di desertificazione delle terre alte sottraendo loro risorse idriche a beneficio solo di chi sta a valle.

A monte ci stanno invece scelte politiche ed abitudini alimentari che avanzano da decenni: ad esempio si è passati dalla produzione di frumento per la produzione di farina, pane e pasta ad uso umano a quella di mais per la produzione di mangimi per allevamenti animali, quando il mais necessita di consumi d’acqua molto maggiori; si sono introdotte coltivazioni non autoctone come il kiwi – del quale siamo tra i primi produttori al mondo – e l’avocado, quando questa frutta necessita di grandi quantitativi di acqua; al tempo stesso in molte zone agricole non si è provveduto ad ammodernare i sistemi di irrigazione per puntare al risparmio idrico.

Oggi la pianura piange più forte ed esige più contributi della montagna, che guadagna la ribalta solo a seguito di avvenimenti straordinari come il crollo del ghiacciaio in Marmolada. Ma l’Italia si salva dalla cima.

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