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Siria, offensiva di Ankara sul Rojava. Da Damasco a Kiev: la “diplomazia” dei droni di Erdogan decide gli equilibri geopolitici

La centralità ottenuta con la guerra in Ucraina rappresenta una garanzia per il presidente turco, consapevole di poter portare avanti la propria agenda estera con maggiore libertà rispetto il passato

In attesa del via libera per una vera e propria operazione militare di terra, la Turchia continua a colpire il Rojava dall’alto, danneggiando non solo l’apparato politico della rivoluzione ma anche quello militare. Con ricadute negative anche sulle operazioni anti-terrorismo portate avanti nella regione dalle Forze democratiche siriane (Sdf) con il coordinamento americano. A fare il gioco della Turchia sono ancora una volta il ruolo assunto da Ankara nella guerra in Ucraina e la conseguente ricomposizione degli equilibri che il conflitto ha portato con sé, e che ha permesso al presidente Recep Tayyip Erdogan di ritagliarsi margini di manovra sempre più ampi in Medio Oriente e nel Mediterraneo.

Nel contesto siriano, la crescente assertività della Turchia si è tradotta in un aumento degli omicidi mirati tramite attacchi con droni, come dimostrano i numeri degli ultimi mesi. Emblematico a questo proposito è stata l’operazione condotta il 22 luglio e che ha causato la morte delle combattenti Salwa Yusuf, Roj Xabur e Barin Botan. La prima, una delle fondatrici dell’Unità di difesa femminile (Ypj), aveva partecipato a numerose battaglie contro l’Isis ed era una comandante di spicco delle Yat, le Unità anti-terrorismo addestrate dagli Usa per contrastare lo Stato islamico in Siria. Lo stesso Comando centrale delle forze Usa ha espresso il proprio cordoglio per la morte di Salwa Yusuf, ricordando il suo contributo alla lotta al terrorismo, ma senza indicare in alcun modo i responsabili del suo omicidio. Un dettaglio importante che aiuta a capire gli attuali equilibri di potere tanto in Siria e quanto nel più ampio scacchiere internazionale. Ma le uccisioni mirate portate avanti dalla Turchia non sono dirette soltanto contro l’apparato militare della rivoluzione del Rojava.

A giugno un attacco con drone sferrato da Ankara in Iraq ha ucciso Ferhad Shibli, co-presidente del Consiglio esecutivo dell’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria, mentre viaggiava su una macchina assieme ad altri quattro civili, rimasti anche loro uccisi. Ad aprile invece è stata la volta di Rodin Ebdilqadir Mihemed, ex combattente e co-presidente del comitato di difesa del cantone di Kobane, uccisa insieme ad altre due compagne delle Ypj. La scelta dei target non è certo casuale. L’obiettivo della Turchia – che secondo il Rojava information center nei primi cinque mesi del 2022 ha condotto già 47 attacchi – è quello di indebolire l’Amministrazione autonoma del Rojava e l’apparato militare, eliminando personaggi di spicco e mandando allo stesso tempo un messaggio al resto della popolazione. Ankara punta infatti a dissuadere altri dal prendere il posto dei soggetti uccisi, lasciando chiaramente intendere che impegnarsi politicamente o militarmente significa finire nella lista nera della Turchia. A fare qualcosa per mettere fine a questo tipo di attacchi potrebbero essere gli Usa, ufficialmente alleati dell’Amministrazione autonoma e delle Sdf nonché membri di quella stessa Alleanza atlantica di cui fa parte anche la Turchia.

Nello specifico, gli Stati Uniti potrebbero bloccare l’esportazione delle componenti di produzione americana utilizzate dalla ditta Bayraktar per i droni TB2 impiegati contro il Rojava o imporre delle condizioni per la loro vendita, come nel caso degli F-16. Nei giorni scorsi infatti il Congresso Usa ha imposto delle limitazioni all’export dei caccia americani alla Turchia, chiedendo rassicurazioni sul fatto che gli F-16 non siano utilizzati per violare lo spazio aereo della Grecia. Le stesse richieste potrebbero essere avanzate sempre nei confronti di Ankara relativamente all’uso dei droni turchi contro il territorio del Rojava, facendo anche leva sulle conseguenze umanitarie degli attacchi portati avanti nel nord e nel nord-est della Siria. Considerando l’attuale quadro internazionale, però, difficilmente gli Usa interverranno in difesa dell’Amministrazione autonoma e delle Sdf.

Erdogan si è dimostrato indispensabile per il raggiungimento di un accordo per l’esportazione del grano ucraino ed è considerato l’unico in grado di far avanzare le trattative per la fine delle ostilità russe. Il presidente turco mira infatti alla ripresa dei colloqui di pace a Istanbul, arenatesi già dopo i primi incontri ma su cui Erdogan continua a puntare in vista anche di un ritorno in termini elettorali. La centralità ottenuta con la guerra in Ucraina rappresenta quindi una garanzia per il presidente turco, consapevole di poter portare avanti la propria agenda estera con maggiore libertà rispetto il passato. Ma ad approfittare della situazione potrebbe essere proprio la Russia, ugualmente presente in Siria a sostegno del presidente Bashar al Assad. Se Mosca, che fa parte insieme alla Turchia del gruppo di Astana, riuscisse a convincere Ankara a ridurre gli attacchi contro il Rojava potrebbe avvicinare ulteriormente i curdi all’asse governativo, a tutto vantaggio di Damasco. D’altronde già la minaccia di un’invasione turca e il supporto limitato offerto dagli Usa aveva portato le Sdf ad optare per un avvicinamento tattico al regime, per poter meglio proteggere la popolazione del nord e del nord-est. Osservare quanto accade in Rojava permette quindi di comprendere come la guerra in Ucraina stia ridisegnando gli equilibri internazionali, a vantaggio prima di tutto della Turchia di Erdogan.