Uno spettro si aggira per l’Europa ed è lo spettro del precariato diffuso e generalizzato. Trimestre dopo trimestre il Vecchio Continente macina record occupazionali che sembrano contraddire il fenomeno emergente delle “grandi dimissioni”, ovvero l’abbandono volontario dell’impiego. Ma si tratta di un paradosso solo apparente, che nasconde invece una volatilità del mercato del lavoro inedita alle nostre latitudini e la distanza sempre più marcata tra imprese e lavoratori, soprattutto giovani, colpiti non solo sul piano economico ma anche sociale e psicologico.
Gli ultimi dati Eurostat rilasciati a luglio raccontano di un mercato del lavoro continentale in piena evoluzione. Nell’Unione Europea il tasso di occupazione delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni si è attestato al 74,5% nel primo trimestre del 2022, con un aumento dello 0,5% rispetto all’ultimo trimestre del 2021. È il settimo trimestre di crescita consecutiva dopo la flessione della primavera 2020, ma soprattutto è il nuovo massimo storico dell’Unione. Dieci anni fa, per esempio, si navigava attorno a un tasso di occupazione del 66 per cento. Un boom occupazionale che si evidenzia anche guardando dall’altro lato del cannocchiale. L’Unione registra valori minimi per coloro che attualmente si trovano ai margini del mercato del lavoro: l’insieme di disoccupati, part-time sottoimpiegati, attivi ma non alla ricerca e indisponibili non raggiunge complessivamente il 12 per cento. Dieci anni fa superava il 16.
Il mercato del lavoro europeo sembrerebbe dunque attraversare un’inedita età dell’oro. Ma la realtà è molto diversa, soprattutto se guardata con gli occhi dei più giovani. Nonostante i miglioramenti verso la fine del 2021, la disoccupazione giovanile è rimasta un punto percentuale più elevata rispetto ai livelli pre-crisi (nel 2019). E soprattutto tra i lavoratori quasi 1 su 2, cioè ben il 45,9%, ha un contratto a tempo determinato, rispetto al solo 1 su 10 del totale lavoratori (10,2%). “In media, i giovani hanno una maggiore probabilità di affrontare una situazione sociale e finanziaria difficile”, afferma il rapporto Employment and Social Developments in Europe 2022 della Commissione Europea. “Già prima della pandemia, il reddito dei giovani era più volatile di quello dei lavoratori più anziani. Le famiglie guidate da giovani sperimentano una maggiore povertà, sebbene vi siano differenze marcate tra i Paesi dell’Ue. I giovani hanno avuto difficoltà a far fronte alle spese quotidiane, come quelle per le bollette e l’affitto, e il 61% di loro è preoccupato di trovare o mantenere un alloggio adeguato per i prossimi dieci anni”.
Aumento del precariato e crescenti difficoltà per i giovani sono due trend che in Italia, fanalino di coda europeo per tasso di occupazione, assumono le sembianze di una vera e propria emergenza sociale. Germania, Svizzera, Olanda, Repubblica Ceca, Ungheria, Svezia, Norvegia ed Estonia superano l’80% di occupati. Anche Romania e Grecia, con il 68,3 e il 67%, fanno meglio del nostro Paese, fermo al 64,6% secondo Eurostat. Nel Belpaese l’occupazione negli ultimi mesi è cresciuta e ha raggiunto livelli che non si vedevano da prima della pandemia, e non solo. A maggio 2022 gli occupati erano circa 23 milioni, in crescita di 460mila unità rispetto a maggio 2021. Tuttavia, come ricorda l’Istat, tale incremento è composto, in oltre la metà dei casi, da dipendenti a termine che oggi arrivano a superare i 3 milioni e 170 mila, il valore più alto dal 1977.
Alla prova dei dati, dunque, le cosiddette “grandi dimissioni” si trasformano in un più realistico “grande rimescolamento” all’interno del quale i lavoratori non sono la parte contrattuale privilegiata. E questo accade non solo nel nostro Paese con tutte le sue fragilità ma anche in sistemi economici ritenuti apparentemente più solidi, come quello tedesco. Proprio “Great Reshuffle” ha infatti iniziato a chiamare questo fenomeno lo storico istituto di ricerche americano Gallup, che recentemente si è chiesto se il trend partito negli Usa stia per sbarcare anche in Germania. Ebbene Gallup rileva che quattro tedeschi su 10 (39%) smetterebbero di lavorare se potessero permetterselo, un dato in aumento rispetto al 25% del 2016. Allo stesso tempo il 40% si sta guardando intorno per cercare un nuovo lavoro: cifre record che sul piano della volatilità avvicinano il mercato del lavoro tedesco a quello statunitense. Insomma, le persone sempre più insoddisfatte cercano migliori opportunità, laddove le aziende sembrano invece continuare a ignorare le necessità dei propri collaboratori.
A rafforzare questa percezione è l’indice che la stessa Gallup rileva sul coinvolgimento dei lavoratori, denominato Gallup Engagement Index. Ben il 69% dei lavoratori tedeschi dichiara di non sentirsi coinvolto nel proprio impiego a fronte del solo 17% che invece si mostra “ingaggiato”. Valori praticamente stabili nell’ultimo ventennio, ma che oggi a fronte di un contesto economico e sociale estremamente delicato pongono nuove sfide alle imprese. Che infatti fanno sempre più fatica a coinvolgere nuovi lavoratori. I recruiter tedeschi nel 2021 hanno contattato quasi un lavoratore su tre (il 31%) per riempire posti di lavoro vacanti, mentre nel 2019 era stato contattato “solo” il 15 per cento. Secondo la Bundesagentur für Arbeit, l’agenzia federale per il lavoro, oggi sono necessari 122 giorni per sostituire un lavoratore in uscita con un nuovo dipendente qualificato, mentre bastavano 97 giorni cinque anni fa e 65 giorni dieci anni fa.
L’altra faccia di questa medaglia, che spesso resta nell’ombra, è una questione che ormai va ben oltre l’emergenza: la salute mentale dei lavoratori. I dati Gallup sulla Germania evidenziano che il 38% dei lavoratori si è sentito esausto a causa dello stress sul lavoro negli ultimi 30 giorni. Numeri confermati da un’altra indagine che allarga il campo anche a Italia, Francia, Spagna, Olanda e Polonia, promossa dalla piattaforma canadese Lifeworks. Il 41% degli intervistati è infatti risultato ad alto rischio di disturbi mentali, come ansia e depressione, quasi il triplo di quanto rilevato in sondaggi simili effettuati nel 2017 e nel 2019. Oltre la metà riporta che i propri colleghi sono oggi più colpiti dallo stress rispetto al periodo pre-pandemia. E a essere più colpiti anche in questo caso sono i giovani: sono i lavoratori al di sotto dei 40 anni a dichiarare di aver avuto dalla pandemia un impatto negativo sulla propria salute mentale pressoché doppio rispetto a quelli con più di 50 anni. Una situazione aggravata dalla paura del futuro e dalle notizie provenienti dall’Ucraina. Il 54% degli intervistati ha detto di essere colpito negativamente dal conflitto, il 40% è preoccupato per l’escalation e l’allargamento delle ostilità, il 31% è preoccupato per l’impatto economico della guerra, il 23% è preoccupato per le sofferenze delle persone coinvolte.