Vedere le immagini che ritraggono delle imbarcazioni che giacciono distese su dei prati anziché sull’acqua, e non già perché siano state tirate in secca, ma perché è proprio l’acqua che manca, farebbe pensare a un documentario distopico, e invece è la realtà odierna del fiume Po nel parmense. E sono solamente alcune delle immagini che documentano il pernicioso mix di altissime temperature e carenza di piogge che caratterizza la prima metà del 2022, che ha fatto affermare allo scrittore Nicola Lagioia, non a un’ambientalista: “Quella del 2022 non è l’estate più calda che abbiamo mai affrontato, ma la più mite tra quelle che ci restano da vivere.”
Foto che fanno il paio con la chiusura dello sci estivo allo Stelvio e a Cervinia; con i pesci salvati da pompieri e pescatori; con le centrali idroelettriche chiuse per mancanza d’acqua, e via discorrendo.
Ma torniamo al caso emblematico del fiume Po. In un’intervista rilasciata all’Ansa il presidente dell’Anbi, Francesco Vincenzi, afferma: “Nel nord Italia è una condizione di siccità finora sconosciuta ed è evidente che non basterà qualche temporale a riportare in equilibrio il bilancio idrico.” E poi punta il dito contro la cementificazione di cui al recente Rapporto ISPRA: “In questa prospettiva è ancora più preoccupante che siano proprio Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, le regioni che, nel 2021, hanno maggiormente consumato e cementificato suolo, sottraendolo all’agricoltura e alla naturale funzione di ricarica delle falde, accentuando al contempo il rischio idrogeologico.”
Sacrosanta verità, certamente. Così come quella delle perdite degli acquedotti. Ma il dramma della scarsità della risorsa non vede certo esenti da colpe proprio gli agricoltori, e, infine, noi stessi. Posto che l’agricoltura intensiva che caratterizza quasi tutta la pianura padana risulta essere fortemente consumatrice della risorsa, in particolare la coltivazione del mais, che per il 90% circa finisce ad alimentare non noi ma gli animali da reddito, di cui solo successivamente noi ci nutriamo, o dei prodotti da loro ricavati.
In proposito, si calcola un valore medio di seimila metri cubi di acqua ad ettaro, pari cioè ad uno strato di 60 cm, che corrisponde a più della metà di quella che cade normalmente sotto forma di precipitazioni sulla pianura padana. Un’enormità, di cui agricoltori e consumatori sono appunto responsabili. Con la conseguenza di sottrarre potenzialmente spazio al frumento e costringerci ad andare poi ad acquistarlo all’estero, alimentando il deficit della bilancia commerciale cerealicola. Geniale!
Concludo con un duro strale lanciato gli scorsi giorni dal filosofo ed etologo Roberto Marchesini, sempre contro il mondo agricolo: “Le organizzazioni dell’agricoltura si lamentano della siccità e invocano ristorni. Si dimentica tuttavia che proprio un’agricoltura distruttiva negli ultimi cinquant’anni ha trasformato la pianura padana in un deserto attraverso distruzione delle siepi arboree e arbustive, subsidenza per macchine agricole, montagne di pesticidi ed erbicidi, alterazione dell’alveo dei fiumi, non attenzione ai fossati, distruzione dei maceri, arature profonde, inquinamento delle falde con liquami. Forse dovrebbero semplicemente recitare il mea culpa.”