Da Milano a Firenze, passando per Roma: i racconti dei lavoratori dei musei e delle biblioteche comunali, impiegati con contratti precari e non attinenti al loro settore, cioè quello culturale. Secondo l'associazione MiRiconosci, il Federculture è applicato solo nel 7% dei casi
“Vorrei tornare a lavorare in un museo, ma probabilmente finirò in un bar perché è più conveniente. Otto ore per 50 euro contro 10 ore per 48: a questo punto preferisco farne due in meno. È un’assurdità arrivare a fare questo ragionamento, ma le cose stanno così. Con quello che guadagno non posso permettermi un affitto e neanche un acquisto a rate”. Alba (nome di fantasia) ha quasi 23 anni e una laurea triennale in Storia e antropologia delle religioni. Da febbraio a maggio 2022 è stata operatrice museale in subappalto nei musei civici di Roma. Come i suoi colleghi, lavorava con un contratto che non rappresentava le sue mansioni e non era quello del suo settore. “Invece del Federculture, specifico per gli operatori del settore culturale, avevamo quello dei servizi di vigilanza fiduciari di livello F, cioè il livello di ingresso. All’ora 4,73 netti“. Meno della metà del primo: viene preferito questo dalle cooperative (che assumono il controllo dei lavoratori per conto delle amministrazioni comunali) perché costa meno. Di recente, a Milano, i lavoratori dei musei comunali hanno protestato per via delle loro condizioni: quattro euro all’ora da quattro anni. È finita bene, con un accordo ottenuto dai sindacati. Ma il quadro generale rimane, da anni, preoccupante.
L’associazione MiRiconosci, nel 2019, ha svolto un’analisi secondo cui, su 1.546 lavoratori intervistati, solo il 53% è impiegato con un Ccnl, cioè un contratto collettivo nazionale. Fra questi, solo il 7% ha il Federculture. Il contratto più applicato, secondo l’indagine, è il Multiservizi (23%), seguito da quello del Commercio Terziario e Servizi (18,5%), e poi da quello delle Cooperative Sociali (14,7%). Tre anni fa la contrattualizzazione con i Servizi Ausiliari e Fiduciari era pari al 2,5%. Ora, spiegano dall’associazione, sta dilagando. Fra quelli senza un inquadramento fisso, il 25% del totale dichiara di non avere alcun contratto. “Parte del problema nasce dalla legge Ronchey, che nel 1993 ha dato il via libera alle esternalizzazioni. Da lì sono aumentate di continuo”, spiega Federica Pasini, attivista per MiRiconosci. La responsabilità di chi è? “Delle società che gestiscono lavoratori per conto dei comuni ma anche delle amministrazioni stesse, che potrebbero indicare nei capitolati di gara la necessità di applicare il contratto di settore. Un’attenzione spesso disattesa”. Un esempio, prosegue Pasini: “Dovrebbe essere inserita l’indennità di cassa per chi lavora in biglietteria, dato che maneggia denaro. Non viene mai applicata”. Manca, inoltre, un censimento che faccia il punto sul numero di persone impiegate in questo settore: “Mai fornito dal ministero né dai sindacati, si stima un totale di 5mila”.
Il contratto di Alba è finito a fine maggio, ma lei, nei fatti, ha smesso di lavorare da metà mese. “Perché non ci stavo più. Non erano previste malattie, non c’era un numero di ore stabilito: usano le regole contrattuali come riferimento, ma spesso gli operatori sono impiegati a chiamata. Una settimana sono 40 ore, la settimana dopo sono 60. Oppure possono non chiamarti”, prosegue Alba. E poi, ancora, “c’era il cosiddetto turno jolly: prevedeva che ci presentassimo ai Capitolini dalle 8.30, un’ora prima dell’apertura. Da lì, fino alle 14.30, si poteva essere spostati in tutta Roma in qualsiasi momento. E il percorso da una sede all’altra è a carico nostro”. Lo stesso poteva capitare nella fascia oraria pomeridiana, 14.30-19.30. I costi dei viaggi, continua Alba, erano a loro carico. “Ho lavorato anche dieci ore al giorno, magari cinque in un museo e cinque in un altro, senza il rispetto delle 11 ore di riposo consecutive tra due turni di lavoro nell’arco delle 24 ore. A un certo punto ho iniziato a dire di no”. L’ha fatto quando, dopo una giornata conclusa a mezzanotte, le hanno chiesto un ingresso alle 9.30: “Ho rifiutato. Mi hanno chiamato dicendomi che dovevo capire: si trattava di lavoro. Ho risposto che se vengo pagata 4 euro all’ora gli straordinari non li faccio. Il punto è che molti miei colleghi, spesso giovani, si ammazzano con turnazioni da 13 ore per permettere lo svolgimento della Notte dei musei a un euro. Mi sembra un’assurdità”. Nella sua condizione ci sono oltre 130 persone.
Va un po’ meglio a Firenze, dove Chiara lavora – sempre in appalto – nelle biblioteche civiche. “Siamo esternalizzati da circa 15 anni, molti di noi lavorano con il Multiservizi. Ma quasi tutti si trovano nella condizione di un part time involontario. Gestito male: ci si ritrova con turni spezzati, due ore la mattina presto e le altre in serata. A ogni cambio di appalto la retribuzione peggiora e ci sono servizi attivati che non sapremo fino a quando potranno essere proposti all’utenza. Mancano i fondi“. Ecco perché il primo luglio bibliotecari e archivisti fiorentini hanno scioperato, con un’adesione che MiRiconosci stima al 60%. Quasi tutte le biblioteche hanno dovuto chiudere, così come l’archivio storico. Una nota di Biblioprecari, un collettivo nato nel 2020 di cui Chiara fa parte, motivava la mobilitazione così: “Le preoccupazioni dei lavoratori che oltre 6 mesi fa avevano denunciato il taglio delle risorse destinate in bilancio per il nuovo appalto si sono concretizzate con l’ufficializzazione del nuovo affidamento che partirà dal 1 luglio”. Cosa chiedono? “Investimenti continui nel settore culturale, un confronto con le istituzioni, una contrattualizzazione stabile. E poi concorsi”. Alba, nel frattempo, studia per la magistrale: vuole specializzarsi. “Ma se le cose non cambiano io non so quanti musei e archivi potranno resistere in questo Paese. Non mi sembra abbiano un grande futuro”.