Dal Kosovo alla Libia, da Taiwan fino alle guerre parallele per petrolio, gas e grano. L’effetto a cascata dell’invasione russa dell’Ucraina travolge un numero sempre maggiore di aree sensibili del mondo ogni giorno che passa. Che la decisione di Vladimir Putin di scatenare un conflitto con i vicini non potesse essere considerato solo un affare regionale era chiaro fin da subito: per giustificare l’attacco armato, il Cremlino ha subito puntato il dito contro la Nato, nel tentativo mai celato, insieme agli “amici” cinesi, di ridisegnare la mappa del potere mondiale, in cerca di una nuova struttura multipolare che metta fine alla stagione della grande potenza egemone (gli Stati Uniti) iniziata dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Questa strategia, oggi, si è tradotta in un risveglio di piccole e grandi crisi che rischiano di colpire duramente il cosiddetto blocco Nato-Ue e trasformare il 24 febbraio 2022, giorno in cui i carri armati di Mosca hanno posato i loro cingoli in terra ucraina, in un nuovo punto di svolta nella storia della geopolitica mondiale.
Grano e gas, le armi nella fondina di Mosca
In oltre cinque mesi di guerra, i temi che più di tutti hanno impegnato le cancellerie e le istituzioni europee sono certamente le forniture di gas russo e il blocco, oltre alla distruzione, del grano ucraino. Da una parte Bruxelles e i membri della Nato, anche se quest’ultimi in maniera non compatta, hanno cercato di indebolire la potenza di fuoco russa colpendo Mosca con sanzioni sempre più pesanti. La Federazione, per tutta risposta, ha cercato di controbilanciare le proprie perdite aprendo nuovi canali di commercio internazionale, in particolar modo con la Cina, l’unica grande potenza che ha offerto sostegno alla Russia. Così, mentre le cancellerie europee stavano e stanno ancora cercando vie alternative al gas russo in vista dell’inverno, Mosca si è assicurata nuovi contratti extra-Ue e ha iniziato a tagliare le forniture all’Unione, nel tentativo di destabilizzare i Paesi europei. Senza dimenticare il petrolio: con i prezzi saliti alle stelle, non solo a causa della guerra, molti leader mondiali hanno dovuto rivedere anche le proprie agende e alleanze internazionali. È così che, ad esempio, Joe Biden ha prima riallacciato i rapporti col Venezuela del presidente Nicolas Maduro, inviso a Washington, e poi è volato in Arabia Saudita per un faccia a faccia con Mohammad bin Salman, colui che la Cia indica come il mandante dell’omicidio Khashoggi sul quale proprio Biden aveva promesso tolleranza zero. Lo stesso vale per Emmanuel Macron che, dopo le polemiche per la Legion d’onore conferita a dicembre 2020 al dittatore egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, ha accolto con tutti gli onori all’Eliseo il principe ereditario di Riyad.
Diversa, almeno nel suo epilogo, è la questione riguardante il grano che conseguenze su Europa e Stati Uniti avrebbe potuto averne, ma solo a lungo tempo. La mancanza di cibo nei Paesi dipendenti dal frumento di Kiev avrebbe potuto scatenare nuove migrazioni di massa verso gli Statii più ricchi, costringendo il blocco Nato-Ue a far fronte a una nuova emergenza. Ma su questo gli emissari di Putin e Zelensky hanno trovato un accordo, grazie anche alla mediazione di Turchia e Nazioni Unite. Tanto che è di poche ore fa la notizia che il primo cargo carico di grano è salpato dal porto di Odessa diretto verso il Libano, uno dei Paesi più colpiti dalla crisi alimentare seguita all’invasione russa.
Nancy Pelosi a Taiwan e il rischio escalation con la Cina
Gli Stati Uniti stanno giocando la partita ucraina, con le sue conseguenze a livello globale, su due fronti. Quello russo, dove l’unico progresso dopo mesi di silenzio glaciale si è registrato con la chiamata tra il ministro degli Esteri russo, Serghej Lavrov, e il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e soprattutto quello cinese, il principale competitor a livello globale e primo Paese interessato ad accelerare la fine dell’egemonia globale a stelle e strisce. Ultimo atto, in ordine di tempo, è il viaggio della speaker della Camera, Nancy Pelosi, a Taiwan. Una scelta che varca la linea rossa tracciata da Pechino, ossia l’intromissione nei rapporti tra l’isola con ambizioni indipendentiste e la grande potenza cinese che, invece, su di essa rivendica piena autorità. Per Xi Jinping, una visita da parte della Dem rappresenterebbe una grave provocazione e una violazione del principio dell’Unica Cina che gli Stati Uniti stessi hanno sposato e promette che un atto del genere non rimarrebbe senza conseguenze. Il portavoce del ministro degli esteri, Zhao Lijian, ha infatti dichiarato: “Vorremmo avvertire ancora gli Usa che la Cina è in attesa e che l’Esercito popolare di liberazione non starà a guardare. La Cina prenderà sicuramente contromisure decise e forti a difesa della sovranità e integrità territoriale”. Così la ‘provocazione’ americana rischia di trasformare la guerra latente con Pechino in uno scontro aperto che, oltre a rappresentare un rischio per la sicurezza, provocherebbe un terremoto economico e commerciale a livello globale.
Sul Kosovo Peskov parla di “escalation”
Ma c’è un’altra guerra latente finita nel raggio d’azione ucraino. L’ultima guerra europea prima, appunto, di quella iniziata nel Paese di Volodymyr Zelensky: il Kosovo. Mosca era stata criticata da Belgrado a maggio scorso, quando per giustificare la volontà di annettere il Donbass aveva paragonato la situazione dei territori orientali dell’Ucraina a quella del piccolo Paese incastonato tra Serbia e Albania. Un ‘sacrificio’ in nome della nuova guerra agli occhi del presidente Aleksandar Vučić. Ma le nuove proteste della minoranza serba per la decisione del governo nazionalista di Pristina di imporre il divieto di carte d’identità e targhe automobilistiche serbe, a favore dei documenti kosovari, ha permesso a Mosca di intervenire di nuovo sulla questione, questa volta apertamente al fianco di Belgrado. E con toni tutt’altro che distensivi: “Crediamo che i Paesi che hanno riconosciuto il Kosovo e ne sono diventati i garanti debbano esercitare tutta la loro influenza per avvertire le autorità del Kosovo di non adottare misure sconsiderate che possano portare all’escalation – ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov – Chiediamo che tutti i diritti dei serbi siano rispettati”.
Bruxelles, dal canto suo, non ha alcuna intenzione di vedere aprirsi un nuovo fronte di scontro alle porte dell’Ue, soprattutto se questo coinvolge un Paese, la Serbia, che è al livello più avanzato tra gli Stati dei Balcani Occidentali nel percorso di adesione all’Unione. L’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, ha infatti ricordato di aver “accolto con favore la decisione del Kosovo di spostare le misure (sul divieto dell’uso di documenti e targhe serbe, ndr) al primo settembre. Mi aspetto che tutti i blocchi stradali vengano rimossi immediatamente”, ha scritto su Twitter sottolineando che “le questioni aperte dovrebbero essere affrontate attraverso il dialogo facilitato dall’Ue e l’attenzione” dovrebbe concentrarsi “sulla normalizzazione globale delle relazioni tra Kosovo e Serbia, essenziali per i loro percorsi di integrazione nell’Unione”.
Il fronte libico
Ci sono poi altri scenari che coinvolgono i Paesi del blocco Ue-Nato e nei quali la Russia sta cercando di esercitare la propria influenza nell’ambito di questa partita a scacchi mondiale. Uno, che interessa molto da vicino l’Italia, è quello libico. Non è un segreto che Mosca abbia appoggiato negli anni scorsi le milizie legate al generale Haftar, leader della Cirenaica che ha tentato di defenestrare, marciando su Tripoli, il premier del Governo di Accordo Nazionale riconosciuto da Nazioni Unite e Unione europea, Fayez al-Sarraj. Dopo il fallimento del golpe militare, la Russia ha continuato a sostenere l’Est offrendo, pur negando ogni collegamento, i mercenari della milizia privata Wagner vicini al Cremlino. Quei combattenti, oggi impiegati anche in Ucraina contro le forze di Zelensky, sono ancora presenti nel Paese nordafricano e sono pronte in qualsiasi momento a entrare in azione. Soprattutto adesso che il Paese, dopo una fragile pace raccolta intorno alla figura del premier di transizione in vista delle elezioni, Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, è tornato in una situazione di incertezza a causa delle minacce lanciate proprio al capo del governo di Tripoli dall’aspirante presidente Fathi Bashagha. In un Paese storicamente di transito per le grandi migrazioni lungo la rotta del Mediterraneo e nel quale si è già aperta una contesa mondiale per stipulare nuovi accordi sull’energia in vista di una maggiore stabilità, il fattore Russia potrebbe scombinare i piani dei Paesi europei, Italia in primis.