Luigi Di Maio dice sì al Pd a braccetto con Tabacci, Giovanni Toti dice no al centrodestra e aspetta Matteo Renzi, che invoca il terzo polo e tira per la giacchetta Carlo Calenda, che nel frattempo gioca al tira e molla con Enrico Letta. Quando mancano un mese e 25 giorni alle elezioni, la politica italiana è ancora appesa alle parole e alle volontà dei leader di formazioni che prese separatamente non arrivano nemmeno al 5% dei consensi tra gli elettori. Partitini all’improvviso diventati protagonisti, anzi kingmaker, per via della surreale legge elettorale con la quale gli italiani andranno al voto il prossimo 25 settembre. Il nome è noto: Rosatellum, per via del suo principale architetto: Ettore Rosato, deputato di Italia Viva, proprio uno di quei partitini che contano (soprattutto sui giornali) seppur con un 2% di consensi. È una legge che costringe alle alleanze, anche a costo di farle diventare ammucchiate: un terzo dei seggi, infatti, viene assegnato nei collegi uninominali. In altre parole, chi arriva primo si prende il posto in Parlamento. Ma il diavolo sta soprattutto nell’intricato meccanismo delle soglie di sbarramento: una selva di percentuali che, all’atto pratico, porta i partiti a continui ragionamenti per individuare la strada che sia più utile al proprio tornaconto, ovvero ottenere più seggi possibili nel prossimo Parlamento, già ristretto dal taglio di deputati e senatori.

Come funzionano le soglie di sbarramento
La prima percentuale da tenere a mente è il 3%: le liste che non superano questa soglia non entrano in Parlamento. È uno sbarramento più basso rispetto, ad esempio, al 5% previsto in Germania. Questo spinge partiti che non sono sicuri di arrivare al 3% da soli a comporre liste insieme ad altre forze politiche: così nascono accrocchi come Azione/+Europa o Di Maio/Tabacci, con nuove formazioni che ne imbarcano di vecchie per evitare la raccolta delle firme necessarie a presentare una nuova lista. Ma la questione si complica realmente quando si parla di coalizioni. Innanzitutto, la soglia di sbarramento è fissata al 10 per cento. Se però la coalizione non supera questa percentuale, i partiti che ne fanno parte e hanno superato il 3% entrano comunque in Parlamento. Non c’è nessun rischio, quindi, nel comporre alleanze. C’è però un’altra soglia prevista dal Rosatellum: le liste che fanno parte di una coalizione e che prendono tra l’1 e il 3% non guadagnano seggi, ma i loro voti vengono spartiti proporzionalmente tra gli altri partiti che compongono la coalizione. Solamente i voti alle liste che rimangono sotto l’1% vanno invece completamente persi.

Ecco perché i grandi partiti cercano disperatamente le alleanze con i piccoli: puntano a raggranellare qualche punto percentuale in più. Così anche le tre forze di centrodestra – Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – che pure sono solidamente in vantaggio nei sondaggi, non rinunciano all’aiutino dei vari Noi con l’Italia, Udc e Coraggio Italia. Il “campo largo” che gravita attorno al Pd di Enrico Letta, invece, va da Sinistra italiana e Verdi a “Impegno civico” di Di Maio e Bruno Tabacci. Il partito dell’ex Cinquestelle, ad esempio, vale attualmente un 1,3% (sondaggio Ipsos): tutti voti che andrebbero al Pd. Proprio i dem, rifiutando l’alleanza con il M5s, sanno anche che tutte le X prese dai partitini loro alleati (se dovessero arrivare ciascuno tra l’1 e il 3%) diventerebbero automaticamente voti per il Partito democratico, senza doverli spartire con altri alleati. Le soglie di sbarramento sono anche il motivo dei tentennamenti di Carlo Calenda: Azione/+Europa è stimata intorno al 4%, ma una rilevazione di Noto sondaggi le attribuisce addirittura il 7%. Da qui la tentazione di mollare il Pd e correre con il terzo polo: se Italia Viva vale ad oggi poco più del 2%, la coalizione di centro potrebbe puntare a superare la soglia del 10, anche con l’aiuto di Italia al Centro di Giovanni Toti. In quel caso, Calenda potrebbe anche “usufruire” dei voti di Matteo Renzi e del governatore della Liguria, senza doverli spartire con il Pd. Un’operazione senza nulla da perdere: se la coalizione invece non arrivasse invece al 10%, Azione entrerebbe comunque in Parlamento superando il 3%.

La spinta ad allearsi: gli “uninominali” valgono 221 seggi su 600
Così i partitini si prendono improvvisamente la scena: una sovraesposizione mediatica per un 2% di consensi da proporre al miglior offerente. La legge elettorale infatti prevede che un terzo dei seggi venga assegnato tramite sistema maggioritario e i restanti due terzi con il proporzionale. Saranno 221 (147 per la Camera e 74 per il Senato) i collegi uninominali: il candidato che ottiene più voti si prende il seggio in Parlamento. La conseguenza porta al più classico dei do ut des: tu mi porti in dote il 2 per cento della tua lista, io in cambio ti faccio eleggere in un collegio uninominale. Il Pd, ad esempio, valuta l’ipotesi di candidare Di Maio in un collegio blindato, garantendogli un paracadute sicuro per Montecitorio: il retroscena del Corriere di una sua candidatura a Modena (poi smentita) aveva già fatto discutere. Nel centrodestra, invece, la spartizione dei collegi uninominali è già stata decisa: 98 a FdI, 70 Lega, 42 a Forza Italia (con l’Udc), 11 a Noi con l’Italia e Coraggio Italia. Oltre ai collegi, il Rosatellum – per non farsi mancare nulla – offre anche la possibilità dei listini bloccati. Gli elettori possono mettere la croce sul simbolo, ma non esprimere una preferenza sui candidati. Di conseguenza, qualche leader di un partitino può essere paracadutato in Parlamento anche attraverso i collegi plurinominali, con il voto proporzionale: basta inserirlo nella listino della forza politica che guida la coalizione.

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