Dopo giorni di battibecchi estenuanti, la fumata bianca è arrivata. Sotto forma di un accordo tra Pd e Azione/+Europa che recepisce tutti i diktat di Carlo Calenda: no ai leader “divisivi” e agli ex 5 stelle nei collegi uninominali, sì all’agenda Draghi e ai rigassificatori, impegno a modificare reddito di cittadinanza e bonus 110%. E un patto sulle candidature che è un trionfo per l’ex ministro dello Sviluppo economico: al netto dei (pochi) uninominali che andranno a Sinistra italiana ed Europa verde, ben il 30% dei posti verrà attribuito ai candidati di Azione e +Europa, contro il 70% del Pd. Un’ipervalutazione che il cartello liberale è riuscito a ottenere “pompando” i sondaggi che gli attribuiscono tra il 6% e il 7% dei voti (contro il 23% dei dem) e facendo dimenticare quelli, altrettanto recenti, che non lo stimano oltre il 3,6%. Così, domenica 25 settembre, sulla scheda elettorale comparirà una coalizione inedita formata da Pd, +Europa/Azione, Impegno civico/Centro democratico (il nuovo soggetto lanciato da Luigi Di Maio e Bruno Tabacci) e Sinistra italiana/Europa verde. Con due “front-runner“, come recita l’accordo riprendendo il termine inaugurato da Letta: il segretario dem per i democratici e progressisti e il leader di Azione per i liberali. “Questo non è un centrosinistra, è un centro (liberale, riformatore) e sinistra“, sintetizza soddisfatto il segretario di +Europa Benedetto Della Vedova.

Il documento di una pagina e mezzo arriva al termine di un vertice durato due ore alla Camera, all’indomani di una giornata, lunedì, in cui l’intesa era sembrata a forte rischio. “Le prossime elezioni sono uno spartiacque che determinerà la storia prossima del nostro Paese e dell’Europa. Partito democratico e Azione/+Europa siglano questo patto perché considerano un dovere costruire una proposta vincente di governo“, esordiscono i tre leader. Quasi subito arriva il paragrafo sull’energia, che contiene uno dei punti più cari a Calenda: gli alleati “si impegnano a mettere in campo le politiche pubbliche più idonee per garantire l’autonomia del Paese” anche attraverso “la realizzazione di impianti di rigassificazione“, seppure “nel quadro di una strategia nazionale di transizione ecologica virtuosa e sostenibile”.

“In ambito economico e sociale”, prosegue il patto, le parti s’impegnano a “realizzare il salario minimo nel quadro della direttiva Ue” e a “una riduzione consistente del cuneo fiscale a tutela in particolare dei lavoratori”. Poi c’è il riferimento all’agenda Draghi, un altro must del leader di Azione: “Le parti condividono e si riconoscono nel metodo e nell’azione del governo guidato da Mario Draghi“. E pure la bacchettata ai 2partiti che hanno causato la sua caduta”, che “si sono assunti una grave responsabilità dinanzi al Paese e all’Europa”. Segue un elenco di riforme “da completare e/o emendare”, tra cui spicca, in particolare, l’impegno a “correggere lo strumento del reddito di cittadinanza e il “bonus 110%” in linea con gli intendimenti tracciati dal governo Draghi” (oltre che a “dare assoluta priorità all’approvazione delle leggi in materia di diritti civili e ius scholae”). C’è anche l’impegno a “non aumentare il carico fiscale complessivo”, che sembra archiviare la proposta di Letta di un aumentare la tassa di successione ai super-ricchi per finanziare una “dote” ai neo-maggiorenni.

Infine, il “patto elettorale” vero e proprio: “Le parti si impegnano a non candidare personalità che possano risultare divisive per i rispettivi elettorati nei collegi uninominali, per aumentare le possibilità di vittoria dell’alleanza. Conseguentemente, nei collegi uninominali non saranno candidati i leader delle forze politiche che costituiranno l’alleanza, gli ex parlamentari del M5s (usciti nell’ultima legislatura), gli ex parlamentari di Forza Italia (usciti nell’ultima legislatura)”. Esclusi, quindi, sia Letta che Calenda che Della Vedova, oltre alle ex ministre forziste Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Ma anche – e soprattutto – Luigi Di Maio: non potendo correre negli uninominali il leader di “Impegno civico” rischierebbe seriamente di restare fuori dal prossimo Parlamento, essendo molto difficile che il suo simbolo raggiunga la soglia del 3% nazionale necessaria per accedere alla distribuzione dei seggi nel proporzionale. Ma a regalargli una via d’uscita ci pensa subito il Pd, annunciando che nelle prossime liste elettorali “offrirà diritto di tribuna in Parlamento ai leader dei diversi partiti e movimenti politici del centrosinistra che entreranno a far parte dell’alleanza”. Tradotto, Di Maio candidato in un collegio sicuro nella “lista aperta” del Pd. Con buona pace del (fu) “partito di Bibbiano”.

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