Taiwan può essere una pietra di inciampo destinata a far da catalizzatore a una grave escalation del nuovo disordine mondiale? Sì, senza dubbio. Come ben sappiamo dal 24 febbraio in poi, il blocco occidentale guidato dai “falchi” a Washington e Londra, non considera affatto una “provocazione” il viaggio della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi a Taiwan, proprio mentre è in corso la guerra “europea” tra Russia e Ucraina (più esattamente tra Russia e Nato/Stati Uniti) mentre, secondo me, la missione della speaker americana è puro incitamento, istigazione, e non ve n’era proprio bisogno nello scenario attuale.

In verità la provocazione taiwanese dell’ottantenne Pelosi, la politica democratica di origine italiana al suo “canto del cigno” con quest’azione ad alta visibilità, non è piaciuta nemmeno all’ottantenne che siede alla Casa Bianca, visto che Biden non ha concordato il viaggio, conscio com’è del fattore scintilla che potrebbe dare fuoco alle polveri di un conflitto armato diretto tra Usa e Cina, certamente tra i possibili esiti contemplati dal Pentagono.

Tuttavia certi ambienti neocon americani del deep state sono sempre pronti a rialzare la testa, forti della vecchia inossidabile hubris fondata sul dominio globale del dollaro. E infatti la Pelosi ha trovato molti appoggi tra le fila dei repubblicani al Congresso, pur tenendo a mente che i più guerrafondai sono proprio i democratici.

A Washington circola da anni l’allarme rosso – politico, militare e di immagine – giustificato dal fatto che gli Stati Uniti stanno rimanendo indietro nella competizione con la Cina per la supremazia economica mondiale. Archiviati per fortuna i toni enfatici ed esagitati conditi di neo-maccartismo anti cinese dell’era Trump, la Casa Bianca considera sì la Cina il nuovo “nemico sistemico”, tuttavia Biden – per quanto affetto da chiari sintomi di Alzheimer – sa che la natura sostanzialmente economica della lotta con Pechino, e i complessi intrecci tra l’economia americana e quella cinese (Cina primo partner commerciale degli Usa) consigliano di non tirare troppo la corda.

E qui si pone la bravata “pelosiana”, che trova facile sponda mediatica e politica, dato che l’umore del deep state si è ulteriormente incarognito da quando la Cina ha promesso una “partnership senza limiti” con la Russia e si è allineata alla linea del Cremlino sulla cosiddetta “operazione militare speciale” contro l’Ucraina.

Taiwan è un’isola di 23 milioni di abitanti che storicamente appartiene alla Cina. Gli Stati Uniti, come il 95% delle nazioni con seggio all’Onu (compresa l’Italia) riconoscono diplomaticamente una sola Cina, quella di Pechino, per cui il viaggio della Pelosi cerca di rottamare questa precisa linea di politica estera accettata da anni. Che Taiwan si auto dichiari “indipendente” solo perché il partito separatista che ha vinto le ultime elezioni a Taipei vuole staccarsi dalla Cina di Xi Jinping non è sufficiente a farne, appunto, una nazione indipendente.

Di nuovo: in questo scenario cos’altro è il viaggio della terza carica del potere americano (la speaker della Camera, in caso di incapacità del presidente e del vicepresidente è terza nella successione) se non una provocazione? A chi giova coltivare e accelerare esiti in stile Hong Kong, su cui giustamente Pechino ha esercitato i suoi diritti, con però conseguenze internazionali stavolta dirompenti, ovvero una guerra globale?

La speaker e i membri di una delegazione del Congresso hanno rilasciato una dichiarazione, sostenendo che “è la prima visita ufficiale a Taiwan di un presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti in 25 anni”, l’obiettivo “è onorare l’impegno incrollabile dell’America nel sostenere la vivace democrazia taiwanese“, “poiché il mondo deve scegliere tra autocrazia e democrazia”. E siamo alla solita divisione tra buoni e cattivi, liberali e autocrati, parole d’ordine che negano e disprezzano la più intelligente delle soluzioni, la Realpolitik.

Il presidente cinese Xi Jinping durante una tesa telefonata con Joe Biden la scorsa settimana ha detto che “coloro che giocano con il fuoco ne periranno”, e il ministero della Difesa cinese ha avvertito che “le forze armate cinesi non staranno mai con le mani in mano“. Infatti mentre l’aereo che portava Pelosi a Taipei atterrava, caccia di Pechino Su-35 hanno preso il volo sullo stretto di Formosa, subito dopo veniva chiuso lo spazio aereo cinese, e il Pentagono faceva sfoggio di muscoli schierando la portaerei nucleare USS Ronald Reagan nel Mar delle Filippine, insieme all’incrociatore missilistico USS Antietam e al cacciatorpediniere USS Higgins.

L’idea che la Cina debba intervenire militarmente è molto diffusa sui social media cinesi, dove otto dei 10 argomenti di tendenza sulla piattaforma di microblogging Weibo sono legati alla visita della Pelosi. L’hashtag cinese, “l’esercito cinese osa sguainare la spada”, ha attirato oltre 100 milioni di contatti, mentre un altro hashtag, “gli utenti di Twitter deridono i commenti di Blinken sulla visita di Pelosi a Taiwan”, ha attirato 330 milioni di contatti. “Questo è il suono della (Cina) che dà il benvenuto alla strega“, si leggeva in un commento a un video di esercitazioni militari postato dal Comando del Teatro Orientale del PLA. Molti post includono riferimenti proprio alla potenza dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA), che lunedì ha appena celebrato il suo 95° anniversario.

I commenti online sembrano anticipare con gioia e partecipazione di popolo una concreta risposta cinese. Gli osservatori non di parte – pochi – ritengono che Xi sarà quindi costretto a calare la carta di una forte reazione a qualsiasi segno che gli Stati Uniti si stanno per muovere (leggi militarmente) per sostenere l’indipendenza di Taiwan, anche alla luce di un’interpretazione affatto secondaria: Xi sta cercando di ottenere un terzo mandato quest’autunno.

Nessuno lo fa, ma i media di Stato del Partito Comunista Cinese andrebbero letti. “La visione strategica della Cina è molto più ampia del semplice gioco del falco e del pulcino con Pelosi. La Cina approfitterà di questa mossa provocatoria degli Stati Uniti per cambiare irreversibilmente la situazione in Taiwan e accelerare il processo di riunificazione”, scrive Global Times, l’organo di stampa del Partito. Che aggiunge: “Gli analisti affermano che nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione della Cina a riunirsi e rinnovarsi, e la crisi russo-ucraina ha appena permesso al mondo di vedere le conseguenze di cosa significhi essere messi all’angolo da parte di una grande potenza. La Cina accelererà costantemente il processo di riunificazione e annuncerà la fine del dominio degli Stati Uniti nell’ordine mondiale”.

Peccato che l’invasione russa dell’Ucraina non abbia aiutato i governi europei a riflettere sulle conseguenze, finora inimmaginabili, dell’imposizione di sanzioni economiche (dopo il mezzo flop di quelle imposte alla Russia che si sono rivelate un boomerang) imponendole anche alla seconda economia mondiale, nel caso in cui Pechino dovesse fare una mossa militare preventiva contro Taiwan. Sanzioni contro la Russia, sanzioni contro la Cina, e depressione economica – altro che recessione – in Europa, ecco lo scenario. “In caso di invasione militare, abbiamo chiarito che l’Ue, insieme agli Stati Uniti e ai suoi alleati, imporrà misure simili o addirittura maggiori di quelle che abbiamo adottato contro la Russia”, ha dichiarato il nuovo ambasciatore dell’Ue in Cina, Jorge Toledo.

Questa linea viene scimmiottata dai cosiddetti “liberali” e democratici anche in Italia. Particolarmente vocale la lobby anti-cinese IPAC- Interparliamentary Alliance on China che ha fatto scrivere un articolo alla sua lobbista n.1, Laura Harth, ripubblicato in Italia dal sito degli ultra atlantisti di Formiche.net. Vi si legge: “Sono passati soli due anni da quando abbiamo permesso a Pechino di prendersi Hong Kong. Ora lo spettro si abbatte su Taipei”.

A mio avviso posizioni così radicalizzate su Taiwan, che è parte integrante della Repubblica Popolare di Cina anche secondo le Nazioni Unite, non solo fanno il tifo per Nancy Pelosi ma fomentano e aizzano il peggior fanatismo ideologico, destabilizzante per la pace e la sicurezza globali, scegliendo in pieno la linea geostrategica di quello che Ike Eisenhower, il generale che divenne presidente Usa, chiamò per primo “complesso militare industriale”. Costoro preferiscono che Stati Uniti e Cina vadano dritti verso un’altra guerra – che sarà davvero la Terza Guerra Mondiale – e al cui confronto quella dell’Ucraina sembrerà una scaramuccia.

Ora la palla è nel campo di Pechino. Xi Jinping ha tre opzioni:

1) Non fare nulla (ma è da escludere simile scelta per Pechino)
2) Accontentarsi di un gesto simbolico (come le esercitazioni militari nello Stretto di Taiwan).
3) Fare qualcosa di molto aggressivo (come colpire un caccia americano, lanciare un missile su Taiwan… o qualcosa di peggio)

La Cina è quindi in una posizione molto complessa ed è difficile immaginare un risultato positivo per Pechino in questo scenario, la provocazione della Pelosi lascia ben poca libertà d’azione. Se Xi Jinping fa troppo poco, il leader cinese e l’intero Partito Comunista saranno oggetto di critiche in patria. Ma se farà troppo, Pechino potrebbe inciampare in un conflitto armato globale che avrebbe effetti deleteri e ricadute economico-politiche gravissime.

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