Negli ultimi quattro giorni, un detenuto al giorno si è tolto la vita. È di poche ore fa la notizia che un uomo si è suicidato nel carcere di Ascoli Piceno. È il 44esimo suicidio in carcere dall’inizio di questo 2022, più di uno ogni cinque giorni. Numeri in vertiginosa crescita, ben superiori agli scorsi anni. Perfino a quelli del massimo sovraffollamento carcerario che costarono all’Italia una condanna da parte della Corte di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti e che mantenevano fino a poco fa il triste primato.
Se l’Italia ha uno dei tassi di suicidi più basso d’Europa nella società libera (0,67 ogni 10.000 abitanti), esso sale di 16 volte se guardiamo alle persone detenute. È un’enormità, sulle cui cause non possiamo non interrogarci. La persona che oggi ha scelto di finire la propria vita, fa sapere il Garante Nazionale delle persone private della libertà, ci aveva già provato sei volte negli ultimi mesi. Storie di disperazione e spesso di marginalità. Non grandi e pericolosi criminali, ma persone con problemi di tossicodipendenza, giovani con poca corazza per imparare a farsi la galera, detenuti con parenti lontani e ancor più soli e isolati nell’isolamento del carcere. Circa la metà dei suicidi ha riguardato detenuti stranieri. Diversi si trovavano in carcere solo da poche ore e si sono sentiti persi. La fascia più rappresentata è quella dei giovani e giovanissimi, tra i venti e i trenta anni di età.
Il sistema penitenziario e la politica non possono non farsi carico di tutto questo. Lo Stato ha un dovere di custodia nei confronti di chi reclude. Sono anni che i rapporti di Antigone, compreso quello di metà anno pubblicato pochi giorni fa, raccontano lo stesso scenario: un grande sovraffollamento (che non significa solo mancanza di spazio vitale, ma anche riduzione dell’attenzione che il sistema può prestare al singolo e compressione di ogni servizio essenziale, compreso quello di tutela della salute), di detenuti tossicodipendenti, di detenuti affetti da patologie psichiatriche. Da troppo tempo in carcere rinchiudiamo chi fuori non vogliamo vedere e non vogliamo gestire.
Poche, troppo poche, le figure capaci di intercettare questi problemi. Ciascun educatore deve farsi carico in media di 81 persone, con picchi di 220 (Bari) o 189 (Foggia). La media di presenza degli psichiatri si attesta attorno alle 10 ore settimanali per 100 detenuti, quella degli psicologi sale a 20.
Nei mesi scorsi Antigone ha redatto un’articolata proposta di riforma del regolamento penitenziario. L’attenzione di fondo era anche a creare condizioni di vita interna capaci di sostenere la persona in un momento di disperazione ed evitare gesti irrimediabili. Alla fine dello scorso anno, la Commissione ministeriale per l’innovazione penitenziaria guidata dal prof. Marco Ruotolo aveva presentato una preziosa relazione che conteneva proposte in parte analoghe. Purtroppo la caduta del governo ha impedito che quel testo si trasformasse in realtà.
Accanto a interventi riformatori più complessi, si proponevano provvedimenti decisamente di facile attuazione. Provvedimenti che in carcere possono salvare vite umane. Mi riferisco all’ampliamento delle possibilità di contatto tra le persone detenute e i loro cari, il cui contingentamento, se non in casi particolari, non ha alcuna ricaduta positiva sulla sicurezza e si risolve in una mera aggiunta di afflizione senza senso.
Oggi il governo è in carica solo per il ‘disbrigo degli affari correnti’. Non ha che ‘poteri di ordinaria amministrazione’. Un concetto privo di contorni rigidi e suscettibile di interpretazione. Con l’ordinaria amministrazione si può allargare l’accesso alle telefonate da parte delle persone detenute. Basta una singola disposizione regolamentare, che potrebbe salvare molte vite.