Nessuno racconta più bugie del calcio estivo. Perché il pallone d’agosto ha l’oscuro potere di trasformare le suggestioni in obiettivi, le allucinazioni collettive in certezze. A Roma è stato così per quasi due decenni. Un popolo generoso che si è riunito giubilante per salutare i sarcofagi di Adriano e di Pastore, che ha creduto alla riedificazione di Zemanlandia, che ha riposto fiducia nel cartello sul quale Monchi aveva scritto “Qui non si vende, se gana“. Vent’anni passati con i sogni estivi che arrivavano all’autunno già decomposti. O peggio ancora, trasformati in incubi orrorosi dal gol di Pazzini o da quello di Ibrahimovic a Parma. Una favola al contrario che è diventata una maledizione. Per mandarla in frantumi c’è voluto l’esorcismo di José Mourinho, l’uomo che aveva annunciato di venire subito dopo Dio.
L’Europa Conference League vinta sotto il cielo di Tirana ha ribaltato la prospettiva. Perché è stato il mantenimento di una promessa. “La Roma assomiglia a un gigante addormentato. Non c’è motivo per cui questo club non possa competere seriamente per dei trofei. Con i tifosi e la città alle nostre spalle tutto è possibile“, avevano detto i Friedkin due anni fa, nel momento di rilevare la società da Pallotta. È stata una delle loro pochissime dichiarazioni, e proprio per questo ha fatto discutere. Sembrava una frase spot. Solo che si è trasformata in realtà. L’ubriacatura della festa lungo le strade della città ha dimostrato che vincere nella Capitale non è solo possibile, ma genera dipendenza. L’idea alla base del mercato della Roma è stata stravolta. Non più giovani dall’avvenire luminoso da far crescere per poi venire sacrificati sull’altare delle plusvalenze. Non più calciatori di livello internazionale da intercettare qualche metro prima dell’imbocco del viale del tramonto. O almeno, non solo.
La campagna trasferimenti di questa estate è qualcosa di molto vicino al capolavoro. Prima Nemanja Matić. Poi Paulo Dybala. Adesso Georginio Wijnaldum. A breve anche Andrea Belotti. Tutti rigorosamente a zero. Tutti caricati a molla dalle telefonate di José Mourinho. L’unico “acquisto” vero è stato Zeki Çelik. E il suo cartellino è costato poco meno di sette milioni di euro. Una cifra tutto sommato accettabile per un terzino titolare nel Lille che ha soffiato il titolo al PSG e che ora viene a fare la riserva di Karsdorp. È una campagna acquisti ossimorica. Sontuosa, ma portata avanti nel segno dell’austerity. Capace di sfruttare le occasioni che presentava il mercato, ma anche di innestare esattamente quello che mancava alla squadra. Ai nastri di partenza dello scorso Tammy Abraham sembrava sovradimensionato rispetto al livello dei suoi compagni. Poi sono arrivate le conferme sul lungo periodo di Lorenzo Pellegrini, l’esplosione del ventenne Nicola Zalewski, il ritorno su buoni livelli di Smalling, la consacrazione del lavoro oscuro di Cristante. Il peso specifico della squadra era cambiato in corso d’opera. Era una Roma con delle ottime individualità ma drammaticamente incompleta. Per sistemarla servivano una valanga di quattrini. O, peggio ancora, delle idee.
Il dato più preoccupante era quello dell’attacco. I giallorossi avevano segnato appena 59 reti. Addirittura meno di Sassuolo, Udinese, Verona. L’unico ad andare in doppia cifra era stato Abraham (17 reti in solo in campionato, 26 in tutte competizioni). Dietro di lui il vuoto. Pellegrini aveva segnato 9 centri. Shomurodov 3, Zaniolo appena 2 (più 6 in Conference League). Una miseria. Bisognava aggiungere una seconda punta che avesse nelle gambe almeno una decina di gol. Ed è arrivato Dybala, che nella stagione più complicata della sua carriera ne aveva messi a referto esattamente dieci. Bisognava aggiungere un sostituto di Abraham, che nella seconda parte della stagione arrivava stremato alla fine delle partite. Shomurodov, unico vero errore di mercato di Tiago Pinto (pagato qualcosa come 17.5 milioni di euro più 2.5 di bonus e percentuale sulla futura rivendita) non aveva convinto Mourinho. Sia per i pochi gol portati alla causa. Sia per la mollezza mostrata in qualche occasione in cui era stato spedito in campo. Al suo posto dovrebbe arrivare Belotti. Anche lui alle prese con un’annata non esaltante dopo la vittoria dell’Europeo, con 8 reti segnate in 22 partite.
La contabilità dei gol è un esercizio che rischia di sfociare nel grottesco. Ma la squadra dello Special One rischia di partire con un bonus di 13 gol in più rispetto allo scorso anno. Vorrebbe dire segnare più del Milan scudettato. Vorrebbe dire provare ad ambire a qualcosa di importante. L’altro grande problema della Roma era a centrocampo, nella fase di sviluppo della manovra. Oliveira non ha convinto. Veretout non ha convinto. Mkhitaryan se n’è andato all’Inter. A parametro zero. Per evitare la manovra farraginosa e straziante della prima parte della scorsa stagione servivano qualità ed esperienza. Doti che sembrano essere state concentrate in Matić e Wijnaldum. Il serbo, 34 anni, difficilmente potrà giocare da titolare per tutta la stagione. L’olandese, che a novembre compirà 32 anni, si preannuncia fra i primi cinque centrocampisti della Serie A. Con lui la Roma acquista tecnica, gestione del pallone, inserimenti. Ma soprattutto un giocatore da quasi cento gol segnati in carriera.
Una situazione all’apparenza perfetta. Anche se molto dipenderà da Mourinho. Il portoghese, dopo la parentesi con il Tottenham, è tornato ad essere l’anima di un club. E lo ha fatto a modo suo. Provocando, calamitando l’attenzione su di sé, creando una simbiosi con l’ambiente, proponendosi come unico garante possibile del successo, rompendo pubblicamente con i suoi calciatori dopo la disfatta contro il Bodø e riabbracciando l’unico figliol prodigo di quella nidiata: Kumbulla. Ora la Roma e Mourinho tendono a sovrapporsi, a identificarsi completamente. Con i tifosi e la città alle sue spalle tutto è davvero possibile. La parola scudetto resta un grande tabù. Anche perché, come diceva Umberto Eco, “La scaramanzia porta sfortuna”. Eppure questa squadra, completata da Pinto e motivata da Mou, sembra potersi collocare davvero in una zona imprecisabile che si trova all’interno dei confini delle prime quattro posizioni. L’unica fragilità sembra essere rappresentata dalla difesa, dove Mancini e Ibanez alternano blackout a interventi miracolosi. Ma la Serie A assomiglia molto a un gioco al ribasso. Il successo finale dipende non solo dalle proprie qualità, ma anche dalle carenze altrui. E con il Napoli che al momento si è ridimensionato, ora si spalanca un’autostrada davanti ai giallorossi. Almeno ora. Almeno in estate. E stavolta il calcio d’agosto potrebbe non aver raccontato una bugia.