Sono iniziate le annunciate esercitazioni militari cinesi attorno a Taiwan, dovrebbero durare fino alle 12.00 di domenica, ora locale. Come posizionamento e intensità ricordano le esercitazioni a fuoco vivo che Pechino tenne durante la terza crisi dello Stretto di Formosa nel 1995-1996, ma questa volta le manovre riguardano sei zone che circondano completamente Taiwan, sono le più vicine all’isola a memoria d’uomo e sembrano una sorta di prova generale per dimostrare che, qualora volesse, l’Esercito Popolare di Liberazione potrebbe invaderla da tutti i lati. Insomma, per la prima volta si tratta di una simulazione della riconquista dell’isola, non di una semplice esercitazione militare. Di fatto, in questo momento, stiamo assistendo a una sorta di blocco aereo e navale di Taiwan.
A inizio esercitazioni, le forze armate di Taipei hanno comunicato di aver lanciato dei razzi per allontanare un drone che volava sopra Quemoy, un arcipelago che dista solo 3 chilometri dalla Cina ma che è controllato da Taiwan. Nessun velivolo cinese aveva sorvolato quelle isole fin dagli anni Cinquanta. Più tardi, l’Esercito Popolare di Liberazione ha cominciato dei lanci missilistici utilizzando anche i Dongfeng-15B, missili balistici con una capacità di 700 chilometri, che avrebbero sorvolato l’isola per spegnersi nelle acque al largo della sua costa orientale. Anche qui, una prima volta. I taiwanesi dicono che sono in grado di rispondere prontamente in caso di emergenza.
La prima impressione è che si tratti di esercitazioni molto politiche, nel senso che devono lanciare un messaggio e probabilmente questo messaggio è rivolto soprattutto all’opinione pubblica cinese interna, per rinsaldare il patriottismo scosso dalla visita di Pelosi e necessario al consenso per il Partito Comunista e per Xi Jinping. Ma anche il messaggio rivolto a Taiwan appare chiaro: l’esercito cinese ha elaborato strategie per circondare l’isola, isolarla e quindi attaccarla.
La visita di Nancy Pelosi a Taiwan, dal punto di vista cinese (e non solo) ha violato i comunicati di Shanghai del 1972 che sono alla base delle relazioni bilaterali tra Washington e Pechino. Non furono un trattato o un accordo, ma dal punto di vista politico hanno stabilito le regole del gioco nelle relazioni Cina-Usa per i successivi cinquant’anni. Stabiliscono il principio di “una sola Cina” e il fatto che Taiwan sia parte della Cina (ma gli Usa hanno poi aggiunto che si opporrebbero nel caso in cui un’eventuale riunificazione avvenisse con la forza). Nancy Pelosi è la terza figura in linea gerarchica per la presidenza degli Stati Uniti: se a Biden o Harris succedesse qualcosa, sarebbe lei a raccogliere lo scettro e una visita di un funzionario di tale rango a Taiwan è quasi il riconoscimento della sovranità dell’isola. Ancora più grave – almeno dal punto di vista cinese – è il fatto che Biden sia apparso indeciso e incapace di impedire una visita che si è poi tradotta in un fuoco di fila di promesse e proclami fatti da una politica ufficialmente non in veste ufficiale: dalla retorica su Taiwan “baluardo democratico” al semi-invito rivolto alla presidente taiwanese Tsai affinché visiti gli Stati Uniti. Insomma, a Pechino resta la sensazione di una provocazione inedita e inaudita.
Fino a ieri ci si chiedeva: cosa farà il Partito comunista per mantenere l’immagine di Xi Jinping “uomo forte”, senza scatenare una guerra? Questa è una necessità tanto più urgente visto che in autunno ci sarà il congresso che dovrà consacrare il leader per almeno altri cinque anni e i cinesi sono già sotto stress per il rallentamento dell’economia e le draconiane politiche anti-Covid. Contrariamente a quanto si pensa generalmente, l’opinione pubblica cinese è variegata e il partito è ossessionato dall’ottenimento del consenso, il nazionalismo è una tendenza in crescita, fomentata per altro dal partito e da Xi stesso nell’ultimo decennio, mentre la tradizionale ammirazione per gli Stati Uniti di larghi strati della popolazione sta gradualmente trasformandosi in un antiamericanismo diffuso. Se saprà gestire questa crisi senza perdere la faccia, Xi Jinping potrebbe addirittura trarne beneficio come uomo forte che nella narrazione ufficiale farà tornare grande la Cina dopo che Mao l’ha fatta rialzare e Deng Xiaoping l’ha fatta arricchire. Sicuramente, la visita a Taiwan di Nancy Pelosi ha rafforzato un’altra narrazione, quella del “secolo dell’umiliazione”, i cent’anni in cui la Cina fu colonizzata tra il 1842 e il 1949, con l’idea che gli occidentali rappresentati dalla superpotenza del momento cerchino sempre e inevitabilmente di umiliare e soggiogare la Cina.
In questo quadro, le esercitazioni iniziate oggi sono un avvertimento a Taiwan più che agli Stati Uniti, ma la loro natura prevalentemente simbolica sembra voler dire: “A differenza degli Usa, che non sembrano avere più una politica estera coerente e sono in balia delle mosse di un’ottuagenaria anticinese, noi siamo attori responsabili e non puntiamo all’escalation”. Basterà questo messaggio a placare i nazionalisti interni?