Un interessantissimo articolo apparso su Il Fatto Quotidiano ha dato atto di come negli Usa, dopo la grande ondata di dimissioni (secondo il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti nel 2021 oltre 47 milioni di americani hanno lasciato volontariamente il lavoro), sia nato un contro-movimento per cui circa un* lavorator* su quattro sarebbe pentit* della scelta.

Anche in Italia si è parlato di una Great Resignation, poiché secondo alcuni si sarebbe assistito nel corso del 2021 ad un numero straordinario di dimissioni, che avrebbe messo in ulteriore difficoltà le aziende, già alle prese con la (falsa) complessità nel trovare lavoratori per via del Reddito di cittadinanza (per un’analisi sul punto rinvio a un mio recente post).

Per capire se le cose stiano effettivamente come ci sono state raccontate è necessario, in primo luogo considerare quali siano state le leve che hanno spinto i lavoratori a rassegnare le dimissioni dopo due anni di pandemia e successivamente verificare, attraverso i dati ricavabili dal rapporto annuale del ministero del Lavoro sulle comunicazioni obbligatorie 2022 (liberamente consultabile), quale sia la verità.

Le ragioni delle dimissioni

Provando ad accorpare le ragioni delle dimissioni per omogeneità, è possibile individuare cinque principali fattori che hanno spinto i lavoratori ad abbandonare il proprio posto di lavoro:

i) la possibilità di raggiungere il pensionamento;

ii) il cambio di residenza;

iii) una riconsiderazione dei valori in gioco e/o la necessità di occuparsi dei carichi familiari, cresciuti durante la pandemia;

iv) una riorganizzazione;

v) il timore del contagio e, quindi, la riluttanza a tornare in ambienti affollati come gli uffici.

Cosa spinge ad un cambio di vita così radicale

Se sul primo motivo non è necessario fare alcun commento, meritano invece particolare attenzione il secondo e il terzo motivo, poiché sottendono una voglia (o una necessità) di cambiare l’ordine delle priorità della vita. Ad un prima occhiata superficiale può sembrare che la cosa sia positiva, poiché il lavoro non sembrerebbe più occupare un ruolo centrale nella vita. Ad esempio, negli Usa si leggono storie di lavoratori che hanno lasciato San Francisco (area carissima e con enormi problemi di traffico) per andare a risiedere nelle località panoramiche nelle Montagne Rocciose.

Se guardiamo all’Italia, il Covid e le misure emergenziali hanno permesso di sperimentare un diverso modo di lavorare (lo smartworking), che ha generato, tra l’altro, il fenomeno del South -Work: nel corso del 2020/2021 molte persone sono tornate a vivere nelle zone di origine (soprattutto del Sud Italia), mixando una qualità della vita superiore ad un costo della stessa più basso, pur a fronte di redditi ancora parametrati sui livelli più elevati del Nord Italia. Può, quindi, essere capitato che, di fronte alla richiesta di rientro a tempo pieno nell’ufficio, con impossibilità di proseguire il South-Work, alcune persone abbiano preferito preservare la qualità della vita riconquistata, rinunciando al lavoro.

Purtroppo, nella maggior parte dei casi il cambio di vita non è stato suggerito da motivi così romantici, ma dalla necessità di dover modificare l’ordine delle priorità a causa del carico di incombenze familiari, non più delegabili a terzi, come i nonni. Insomma, si tratterebbe di un ulteriore effetto negativo di quel gender gap di cui si è scritto.

Il quinto motivo appare una sorta di via di mezzo tra la seconda e la terza ragione: il cambiamento sarebbe frutto di una nuova scala di priorità dettata però (esattamente come per il terzo motivo) non da una libera scelta di cambiamento, ma da ragioni esogene, quali la paura del contagio. In un recente sondaggio del Pew Research Center su 5.858 adulti che lavorano, il 64% dei lavoratori ha riferito di sentirsi a disagio nel tornare in ufficio. Una ricerca riportata nella Harvard Business Review indica che molti lavoratori sono pronti a smettere se non viene loro offerta un’opzione di lavoro ibrido: su 10.000 americani intervistati il 36% ha, infatti, dichiarato che, in mancanza dello smart-working, cercherebbe un’alternativa.

Attenzione a non dimenticare gli effetti delle misure emergenziali

Il quarto motivo è quello su cui occorre concentrarsi, perché è connesso ad una riorganizzazione aziendale che nel caso italiano ha assunto connotati particolari, per via del divieto di licenziamento che ha impedito, per circa un anno e mezzo (a seconda dei settori), uscite collettive o individuali imposte dal datore di lavoro per motivi oggettivi. Evidente che il blocco potrebbe aver portato, quale “valvola di sfogo” per attenuare il congelamento del mercato del lavoro connesso ai divieti di licenziamento, ad un incremento delle dimissioni o delle risoluzioni consensuali del rapporto incentivate.

Cosa ci dicono i dati del ministero del Lavoro sui rapporti cessati

La conferma ci viene fornita dai dati del ministero del Lavoro: prendendo in esame il periodo 2019-2021, le cessazioni dei rapporti di lavoro vedono una netta decrescita (-33,8%) di quelle volute dal datore di lavoro per motivi oggettivi (conseguenza del divieto di licenziamento), compensate da un netto incremento delle dimissioni, passate a +30,6% (cioè +479.000) nel raffronto tra 2020 e il 2021. Quindi, la Great Resignation italiana non appare tutta frutto di scelte di vita romantiche per una migliore qualità della vita, ma molto più prosaicamente uno strumento di compensazione del divieto per ridurre il personale in modo “spintaneo” (crasi di spontaneo e spinto), attraverso la suggestione che un’uscita incentivata oggi è sempre meglio di un licenziamento senza nulla, quando sarebbe ripresa la libertà di licenziamento.
Ovvio, quindi, che tutti coloro che abbiano “fatto questa scelta” non con animo sereno e libero oggi siano pentiti della scelta.

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