Le parole del segretario Letta, il testo dell'accordo, le differenze recenti nella storia dei partiti: tutto conferma le parole del leader dem, il quale ha ammesso candidamente che il patto è fatto per impedire la vittoria di Meloni e Salvini. Poi ci sono i numeri (80% di seggi uninominali al Pd e 20% ai rossoverdi) e la variabile delle "diverse fasce dei collegi", da cui passerà il vero senso e la convenienza di queste intese
Un matrimonio di convenienza. O, per dirla alla Enrico Letta, di necessità. Perché la legge elettorale impone accordi, perché la solitudine nelle urne favorisce le destre. E bisogna impedirlo. Il segretario del Pd lo dice chiaramente, con parole diverse da quelle usate per presentare l’intesa con Azione di Carlo Calenda. Che non è un matrimonio d’amore, per carità, ma di certo sembra presentare convergenze maggiori rispetto a questo con Sinistra italiana e Verdi. Obiettivo? Sempre il leader dem: “Non è un accordo di governo, ma un patto per evitare che Salvini e Meloni prendano una maggioranza tale da permetter loro di cambiare la Costituzione”. Risultato: uniti, ma ognuno col proprio programma, con le proprie idee.
Certo, poi resta da vedere come Letta riuscirà a coniugare alcuni differenze evidenti tra il programma di Calenda e quello di Fratoianni e Bonelli: sul nucleare, sugli ecobonus strutturali, sul piano per le energie rinnovabili, sul freno alle esportazioni di gas, sulla salvaguardia del reddito di cittadinanza Azione e Si-Verdi parlano una lingua profondamente diversa. Ci sarà tempo per capire se una sintesi sarà possibile. Anche perché, del resto, il testo dell’intesa odierno è sintomatico della storia (soprattutto recente) e delle differenze tra il Pd e i nuovi alleati: come al solito la prima cesura netta è sull’esperienza del governo Draghi. Testuale: “Siamo consapevoli delle differenze di posizioni che abbiamo espresso rispetto all’esperienza del Governo Draghi, che tra noi è stata sostenuta convintamente dal solo Partito Democratico – si legge all’inizio dell’accordo – Ma sappiamo anche che per via della legge elettorale il prossimo Parlamento, in caso di mancato accordo elettorale tra le forze progressiste ed ecologiste rischia di essere dominato dalle destre”.
Da qui il matrimonio di necessità, o di convenienza che dir si voglia: “Non lo vogliamo e ci batteremo per evitarlo. Il nostro accordo nasce per rispondere a questa esigenza che consideriamo prioritaria per il futuro dell’Italia. Siamo consapevoli delle differenze fra di noi – è ribadito – e ci presenteremo quindi alle cittadine e ai cittadini italiani ciascuno con il proprio programma elettorale, la propria lista, la propria leadership, la propria visione sul futuro dell’Italia, pur nella comune volontà di dare a questo paese una svolta in senso progressista ed ecologista“. Perché sì, nell’accordo ci sono una serie di punti fermi: rinnovabili e questione ambientale, contrasto alle disuguaglianze sociali, generazionali e territoriali, attenzione al mondo del lavoro e lotta contro gli abusi in questo settore. Poi però ci sono i numeri, i veri punti del contratto, la divisione dei beni. In tal senso i contraenti dividono tutto, anche le comparsate in tv: “Lavoreremo all’individuazione di candidature comuni nei collegi uninominali secondo un rapporto tra Pd da una parte e Verdi e SI dall’altra di 80 a 20 – si legge – scomputando le candidature per le altre forze in coalizione. Questa percentuale verrà applicata alle diverse fasce di collegi. Lo stesso criterio – è scritto ancora – sempre vincolante unicamente nel rapporto tra PD da una parte e Verdi e SI dall’altra, verrà applicato anche alle regole di ripartizione degli spazi televisivi“.
Una percentuale (80 Pd, 20 Si+Verdi) che fa ripensare alle condizioni strappate da Carlo Calenda (70 Pd, 30 Azione), di certo più vantaggiose di quelle assicurate dal Pd a Fratoianni e Bonelli, che comunque possono essere soddisfatti di quanto portato a casa in termini numerici. Almeno sulla carta: la realtà è un’altra cosa. Perché, necessario dirlo, l’accordo sui collegi uninominali è un patto sull’acqua, perché poi quei collegi devi vincerli nelle urne per portare a casa il seggio e perché sulla scelta geografica delle pedine da schierare sullo scacchiere la partita è ancora tutta da scrivere. In tal senso, è tutta da interpretare quella “percentuale applicata alle diverse fasce di collegi”, che si legge nel testo dell’accordo: se la ripartizione dovesse avvenire a seconda della contendibilità del collegio in questione, per il Pd potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio.
Chiusa definitivamente, invece, la speranza consegnata dall’Assemblea di Sinistra Italiana al proprio segretario Fratoianni: allargare l’accordo anche al Movimento 5 Stelle, contro il volere di Carlo Calenda e a rischio di far saltare il patto tra Pd e Azione. In tal senso Enrico Letta è stato chiaro: non ci sono margini per riaprire il dialogo con i 5 Stelle, “abbiamo fatto una scelta di coerenza“. Chi spera ancora di strappare qualcosa al Pd è invece Luigi Di Maio. Confinato in un non edificante diritto di tribuna e mortificato dai sondaggi che vedono il suo Impegno Civico relegato a uno zero virgola poco, l’ex capo politico dei 5 Stelle continua a parlare con Letta accompagnato dal fido Tabacci. Per avere cosa? Non si sa. Ma il Pd in questo periodo è prodigo di regali. In nome della Costituzione e contro le destre.