In Italia non c’è nessuna “rivoluzione verde” possibile, nessuna agenda climatica che tenga, senza chiudere definitivamente i conti con la mafia, in tutte le sue fetide declinazioni.

Il 9 agosto è una metafora di questa battaglia non persa e non vinta, di questa verità troppo spesso elusa dalla politica (tanto più in campagna elettorale!): il 9 agosto 1991 veniva assassinato il giudice Antonino Scopelliti, il 9 agosto 2017 nella strage di San Marco in Lamis venivano assassinati i fratelli Luciani, testimoni scomodi dell’esecuzione del boss Romito e di suo cognato, De Palma. Un filo lungo quasi trent’anni si srotola tra il 1991 e il 2017, due situazioni per molti versi lontanissime: Scopelliti magistrato che andava eliminato per terremotare il maxi processo contro Cosa Nostra arrivato in Cassazione, i fratelli Luciani assassinati per “precauzione” da mafiosi altrettanto spietati.

Eppure a rifletterci bene tra queste due violenze c’è almeno un punto in comune, oltre alla matrice mafiosa, e cioè la mancanza di verità: ad oggi non si conoscono ancora precisamente mandanti ed esecutori, nonostante le indagini e i processi celebrati o ancora aperti. La “mancanza di verità” è l’altra faccia della impunità, che a sua volta è la benzina con la quale si continua ad alimentare quella forza di intimidazione con la quale le organizzazioni mafiose (tutte) ottengono assoggettamento e omertà, cioè ubbidienza e silenzio. In altri termini: la dittatura della paura.

I destini di Scopelliti e dei fratelli Luciani ci parlano di questa infame dittatura della paura, la stessa che proprio in quelle terre, le campagne della Capitanata come quelle del reggino, approfitta delle condizioni di bisogno di migliaia di braccianti costretti a sopravvivere, lavorando fino allo sfinimento. In Italia non c’è un “inquinante” peggiore di questo: la paura prodotta dal potere criminale. Inquina l’economia, il lavoro, le Istituzioni. Ma soprattutto inquina la speranza di tantissimi giovani che cedono allo sconforto o resistono in condizioni di crescente isolamento. Quando si inquina la speranza la democrazia muore, senza bisogno di colpi di Stato.

La speranza inquinata è la convinzione che non valga la pena cercare giustizia attraverso la legalità. La speranza inquinata è la convinzione che per vivere basta farsi i fatti propri e sperare di non essere coinvolti. La speranza inquinata è convincersi che la politica sia connivente o impotente. Un anno fa Marianna ed Arcangela, vedove di Aurelio e di Luigi Luciani, in una intervista concessa a Rosita Rijtano de Lavialibera denunciavano amaramente la rassegnazione che avvertivano attorno, ben sintetizzata dalle parole di quella conoscente che per rincuorarle aveva detto loro “Che vuoi farci, così è la vita”.

Eh no! Non è normale che la vita sia questa: la mafia non è una tragica fatalità, come un fulmine che ti piomba sulla testa. La mafia è un sistema di potere che non è stato ancora debellato, perché fa comodo prima e sa ricattare poi.

Antonio, figlio di Luigi ed Arcangela, aveva un anno nel 2017, Angela, figlia di Aurelio e Marianna, in quel maledetto agosto, non era ancora nata: quando sarà tempo, con quali parole le loro mamme potranno raccontare? Se all’infinito dolore si potranno almeno sommare parole di riscatto per la giustizia ottenuta, per la vicinanza dello Stato sempre sentita, per il cambiamento radicale del contesto sociale ed economico provocato dalla reazione a tanta violenza, allora la speranza avrà almeno una possibilità di mettere radici in questi nuovi giovani, altrimenti no. Il dolore si impasterà di rabbia e forse di desiderio di vendetta oppure di frustrazione ed abbandono.

La differenza la fanno cultura e politica, che prima scelgono quali parole usare e poi quali azioni perseguire. Niente aiuta di più il crimine che l’abitudine di certa politica a dire tutto e il contrario di tutto, alimentando un’altra convinzione inquinante e cioè che le parole non siano mai impegnative, che il loro significato possa sempre essere piegato e rispiegato secondo la convenienza del momento.

Qualche giorno fa ad Ostia hanno dato fuoco ad un altro bar da poco aperto, il Nalu Pokè, gestito da giovani intraprendenti, che non hanno alcuna intenzione di darsi per vinti. Quanto vale per la politica questa resilienza? Chi in contesti complicati, e Ostia lo è almeno quanto la Capitanata, contrasta con il proprio lavoro la desertificazione progressiva dell’economia legale andrebbe considerato un campione di quella “transizione ecologica”, della quale giustamente in tanti reclamiamo l’urgenza.

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