Le tremila pagine di motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia nascondono una faccenda assai importante che riguarda il passato e il nostro futuro – dunque sarebbe bene che non venisse dimenticata in campagna elettorale.
Si tratta di quello che potremmo definire lo ‘schema Ros’, cioè il metodo di lavoro che si è dato Mario Mori e che non è una sua creazione. Risale allo ‘schema Luca’ (cit. generale Fabio Mini): il colonnello Ugo Luca era il fascistissimo uomo di fiducia del generale Roatta, poi accolto nelle istituzioni repubblicane e inviato in Sicilia a combatter il banditismo: in realtà ad uccidere lo scomodo Salvatore Giuliano. Luca fece un disastro, intrecciando un rapporto perverso con il territorio, ufficialmente con il buon intento di braccare l’ormai inservibile Giuliano, usato dai vertici dello Stato democristiano contro le masse contadine che chiedevano pane e giustizia, dunque doveva scomparire: nel suo rapporto Luca sostenne che tutto era andato per il meglio, che il pericoloso brigante lo aveva ucciso lui; ma arrivò sulla scena il famoso giornalista Besozzi che scrisse l’ancor più famoso articolo: l’unica cosa certa è che è morto.
Il resto era una matassa intrecciata da Luca, che sdoganò il metodo basato sul patteggiamento con la criminalità, la forzatura delle dichiarazioni e delle procedure, insomma un paradigma investigativo che consentiva di tutto. Ma proprio di tutto. Anche di coprire la verità, per dire. E comunque stabiliva la necessità di una contiguità tra forze dell’ordine e criminalità che è stata all’origine di molti guai italici.
Lo schema Luca-Mori trasforma un corpo di polizia giudiziario in una agenzia di intelligence che si autoconcede l’autonomia assolutamente negata all’autorità di polizia giudiziaria, e orienta le scelte al punto di escludere chi si chiama fuori. Come fu per l’ex ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, rapidamente congedato, e come poi accadde qualche anno dopo (2003/2004) quando fu esautorato Sebastiano Ardita, allora in forze al Dap, dalla gestione del Protocollo Farfalla, temendo che lui li mandasse al diavolo. Dietro il proposito di contenere i rischi per la sicurezza nazionale, seguendo quel metodo, si attua una distorsione totale del sistema istituzionale, del resto ampiamente riconosciuta dai giudici di appello.
Questi, nell’evidente tentativo di tener tutto insieme, usano parole di condanna quando definiscono “improvvido” e “spregiudicato” il piano del Ros, per poi diluire e dissolvere la storia nel fine superiore: evitare guai e altre stragi all’Italia. Un fine mancato, diremmo, visto che dall’inizio della trattativa – si presume dopo l’uccisione di Falcone – alla chiusura del ciclo ci sono state diversi altri attacchi terroristici la cui natura ancora non è stata chiarita e che, sia ben chiaro, non sarebbe stata chiarita neanche da un esito contrapposto di questo processo – la natura della Falange armata, l’accelerazione dell’uccisione di via D’Amelio non decisa da Cosa nostra, i misteri delle stragi sul continente nelle quali Cosa nostra manda manovali ma neanche sceglie gli obiettivi, e così via.
Le motivazioni di questa sentenza assolutoria pesano come un fardello perché, indirettamente, spiegano nel dettaglio cosa c’è che non va quando un pezzo dello Stato diviene un corpo separato dallo Stato. E pesa ancor di più quell’assoluzione per Marcello Dell’Utri: perché il fatto non sussiste, scrivono, nel senso che non sono riusciti a dimostrare che i suoi rapporti con la mafia siano stati messi a disposizione di Berlusconi, ma precisano che incontra Vittorio Mangano fino al ‘94. Non fino al ‘92, come sostiene la sentenza della sua condanna. Un arco di tempo che può riaprire scenari in altre procure. La ricerca della verità continua.