Il fatto è che gli anatomopatologi sono convinti che il decesso sia avvenuto due-tre giorni prima del ritrovamento. Questo pone inquietanti interrogativi su che cosa abbia fatto e dove sia stata che era uscita di casa senza cellulari, senza la borsa e il portafogli. Inoltre le prime indiscrezioni sull’autopsia, che risalgono a qualche mese fa, avevano suffragato la tesi della morte avvenuta nello stesso giorno della scomparsa, visto che nello stomaco c’erano ancora le tracce della colazione di quel mattino
A Trieste si chiude un “giallo”, ma se ne apre un altro. Liliana Resinovich, 63 anni, la donna che era scomparsa di casa il 14 dicembre 2021 ed era stata ritrovata morta in un boschetto il 5 gennaio successivo, si sarebbe suicidata. Questa la conclusione a cui sono giunti i medici legali, in una perizia di una cinquantina di pagine i cui contenuti sono stati anticipati dall’agenzia di stampa AdnKronos. Il fatto è che gli anatomopatologi sono convinti che il decesso sia avvenuto due-tre giorni prima del ritrovamento. Questo pone inquietanti interrogativi su che cosa abbia fatto e dove sia stata la Resinovich, la cui presenza non è stata notata in nessuna parte del capoluogo giuliano. Anzi, era uscita di casa senza cellulari, senza la borsa e il portafogli. Aveva lasciato dietro di sé anche la fede. Improbabile che possa essere vissuta per oltre due settimane senza essere notata da nessuno e senza aver lasciato tracce. Inoltre le prime indiscrezioni sull’autopsia, che risalgono a qualche mese fa, avevano suffragato la tesi della morte avvenuta nello stesso giorno della scomparsa, visto che nello stomaco c’erano ancora le tracce della colazione di quel mattino.
La frase che apre nuovi interrogativi è quella che fa riferimento al momento della morte, “due, massimo tre giorni prima” del 5 gennaio. Il corpo era nel parco dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste, sulla collina che dista appena un chilometro dalla casa dove Liliana viveva con il marito Sebastiano Visintin. Si tratterebbe di un decesso per asfissia, una morte probabilmente volontaria. Attorno alla testa due sacchetti di plastica, annodati parzialmente, le gambe erano infilate in sacco nero della spazzatura, come parte del tronco. Una posizione molto strana, che poteva far pensare a un suicidio, ma anche ad un tentativo di depistaggio per una morte violenta. La bozza della relazione per la Procura della Repubblica di Trieste, firmata dal professore di Medicina legale Fulvio Costantinides e dal medico radiologo Fabio Cavalli, è stata inviata ai consulenti di parte per le loro osservazioni. I due medici avevano ricevuto l’incarico dal sostituto procuratore Maddalena Chergia e dovevano rispondere a una serie di domande relative alle cause del decesso, allo stato del corpo, alla presenza di sostanze tossiche nell’organismo.
Secondo quanto si è appreso, è stata esclusa l’assunzione di droga o di farmaci, mentre vengono valorizzati gli elementi a sostegno di un gesto volontario. Innanzitutto i sacchi che contenevano il corpo, risultati integri e quindi “poco compatibili” con un caso di aggressione e con il trascinamento del corpo “in ambiente impervio”. Il boschetto si raggiunge attraverso un sentiero piano, a qualche decina di metri dalla strada, ma lo spostamento del corpo avrebbe dovuto lasciare delle tracce. Invece, è assente “qualsivoglia segno ragionevolmente riportabile a violenza per mano altrui”, anche perché non sono state riscontrate “lesioni attribuibili a difesa” o altre ferite che avrebbero impedito alla donna di reagire ad una ipotetica aggressione.
Come si concilia l’asfissia con il fatto che i sacchetti non fossero stretti al collo? Secondo i consulenti, la circostanza “non esclude una morte per una possibile asfissia di questo tipo: se è vero infatti che basta l’inspirio per far aderire il sacchetto agli orifizi del volto cagionando deficit di ossigeno, tale aderenza può essere anche intermittente o addirittura non esserci essendo sufficiente per il soffocamento l’accumulo progressivo di anidride carbonica espirata ed il rapido consumo dell’ossigeno nel poco volume aereo offerto dal sacchetto”. Si tratterebbe, quindi, di “una morte asfittica tipo spazio confinato (‘plastic bag suffocation’), senza importanti legature o emorragie presenti al collo”.
Quindi l’asfissia causata dai sacchetti è “plausibile, in assenza di altri segni di asfissia meccanica violenta (strozzamento, strangolamento), non emergendo, inoltre, chiare evidenze oggettive omicidiarie, come pure ipotesi più rare e remote come l’abuso di solventi, le manovre legate ad erotismo con asfissia posta in essere a scopo sessuale”. I consulenti non hanno trovato elementi che “concretamente supportino l’intervento di mano altrui nel determinismo del decesso”. Infatti, “il corpo non presenta evidenti lesioni traumatiche possibili causa o concausa di morte, con assenza di solchi o emorragie al collo, con assenza di lesioni da difesa, con vesti del tutto integre e normoindossate, senza chiara evidenza di azione di terzi”.