È l’albero con la crescita più rapida al mondo, in media cinque o sei metri all’anno con il fusto che in un triennio può superare i 26 centimetri di diametro, ha radici ideali per far assestare aree a rischio erosione o frane e assorbe metalli pesanti, dunque può bonificare terreni contaminati. Ma, soprattutto, la Paulownia ripulisce l’aria e assorbe fino a 10 volte più CO2 di qualsiasi altro albero: ogni ettaro coltivato (considerando 600 piante) assorbe in un anno 1200 tonnellate di biossido di carbonio, pari alle emissioni rilasciate da un’auto in 100mila chilometri. Per questo l’albero della Principessa (in onore di Anna Paulowna, figlia dello zar Paolo I di Russia e regina consorte dei Paesi Bassi) è anche noto come pianta anti-smog, viene molto utilizzata nei programmi di riforestazione e può produrre crediti di carbonio. Ne esistono 12 specie, la più resistente è la Tomentosa, quella che cresce più rapidamente è la Elongata, coltivata soprattutto per ricavarne il legno e per la considerevole produzione di biomassa dagli scarti. Così, tra necessità di ricavare energia, azzerare le emissioni e combattere il rischio idrogeologico, si capisce perché, comparsa in Europa agli inizi del 1800, importata dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, negli ultimi anni questa pianta proveniente dalla Cina ha catturato sempre maggiore attenzione. In Italia è al centro di diversi progetti e molti agricoltori in cerca di una coltura da reddito o di un’integrazione a quella già avviata stanno considerando la possibilità di investire in questo business. Dall’Emilia-Romagna al Piemonte, dal Veneto al Lazio.
La pianta anti-smog in tempi di crisi – Anche perché, in tempi di crisi, risponde a diverse esigenze. Il nettare dei fiori color lavanda è molto apprezzato dalle api, che arrivano a produrre fino a cinque quintali di miele all’ettaro e le foglie vengono utilizzate come foraggio per gli animali. La crisi dei prezzi di mercato di molti cereali, inoltre, spinge da tempo le aziende agricole a diversificare le produzioni, scommettendo anche su colture con un valore aggiunto, come gli alberi da legno o da biomassa. E la Paulownia si presta a impieghi complementari tra loro. Si adatta a quasi tutti i tipi di climi e terreni (a patto che siano ben drenati), anche alla siccità e il suo legno chiaro è leggero e resistente, tanto che viene chiamato ‘legno alluminio’. Viene utilizzato nell’industria del mobile, ma anche in quella dell’imballaggio, per realizzare strumenti musicali, come le chitarre Fender, tavole da snowboard, sci e surf, oltre che nelle costruzioni navali. Generalmente, la parte del tronco fino a 6 metri viene impiegata per l’industria, il resto come combustibile a biomassa. E il suo rendimento energetico è molto elevato: il pellet che se ne ricava ha un potere calorifico che si aggira tra 4400 e circa 5mila Kcal/Kg (chilocalorie/chilogrammo). Tra l’altro, la piantagione per biomassa prevede costi ridotti di lavorazione del terreno e di raccolta, rispetto a quella destinata all’industria.
Dal laboratorio al campo – Molto interessanti sono gli ibridi e i cloni messi a punto dai centri di ricerca negli ultimi vent’anni. La FutureGreen, fondata nel 2010 a Foggia da Simona Rosito ha ricevuto nel 2017 il Premio Cento Eccellenze italiane a Montecitorio: ha portato in Italia un clone creato in Spagna, dal quale ha poi sviluppato un proprio clone e un relativo progetto industriale. In quattro anni, si ottiene un tronco dal diametro minimo di 32 centimetri per un’altezza priva di nodi di almeno 6 metri. Un bosco di pini impiega 25 anni per raggiungere i livelli di accrescimento di un bosco di 3 anni di questo clone. L’albero è caratterizzato da grandi foglie con diametro fino a 70 centimetri. “La quantità di CO2 fissata dalle foglie di Paulownia a 17 mesi di età – spiega Simona Rosito – si aggira intorno alle 11 tonnellate a ettaro. Per questo le piantagioni si prestano per i progetti di produzione di Carbon Credits”. Il legno prodotto è molto pregiato, mentre la biomassa è particolarmente adatta ad alimentare impianti di cogenerazione e pirogassificazione. “L’obiettivo della Future Green – spiega a ilfattoquotidiano.it Simona Rosito – è diffondere un meccanismo di filiera corta di legno e biomasse basato sull’incremento della superficie boschiva, soprattutto in territori degradati, che preveda il raggiungimento dell’autonomia energetica delle piccole e medie aziende agricole attraverso l’installazione di impianti di cogenerazione elettrica alimentati dalla biomassa di Paulownia autoprodotta ed il rilancio dell’industria del legno”. Dalla Puglia alla Lombardia, ha sperimentato la crescita rapida della pianta anche Gabriele Gerardi, amministratore delegato della Hobby Garden dei Navigli di Milano che, proprio nel suo vivaio, ha piantato il clone della FutureGreen. “Insieme a Simona Rosito, due anni fa abbiamo fatto un esperimento, piantando qui una piccola Paulownia – racconta a ilfattoquotidiano.it – e l’anno scorso ho tagliato la parte più secca. Da aprile a oggi, in quattro mesi ha fatto cinque metri di vegetazione. Pensiamo a quale potenziale di biomassa può creare, utilizzando anche dei terreni, in Pianura Padana, dove non si coltiva più nulla”.
Dalla rete di agricoltori al commercio in vitro – In diverse regioni stanno nascendo delle filiere. Il progetto ‘Rete Paulownia’ è partito nel 2017 in Emilia Romagna, dove raggruppava 23 aziende. Presidente Tiziano Alessandrini, ex direttore della Cna di Forlì e presidente della Camera di commercio (nonché ex consigliere regionale del Pd). Nel giro di qualche anno la rete, che riunisce imprenditori e agricoltori, è cresciuta. Non solo in Emilia-Romagna, dove oggi fanno parte dell’associazione oltre cento iscritti, ma anche in altre regioni. Così è nato il progetto di filiera corta ‘Rete Paulownia Italia’: gestito dagli agricoltori dalla coltivazione delle piante alla vendita del legno. ‘Paulownia Italia’ è nata invece in Friuli Venezia Giulia, coltiva ed è in grado di moltiplicare in vitro e commercializzare diversi cloni, occupandosi anche dei servizi di consulenza. Proprio sul sito di ‘Paulownia Italia’ si spiega come mai questa pianta in Italia non abbia avuto uno sviluppo adeguato alle sue potenzialità. Intanto, ci sono voluti anni per sapere quali sono gli ibridi che meglio si adattano ai vari climi e terreni su cui piantumare. E poi c’è la questione degli spazi. Finora quasi sempre gli agricoltori hanno optato per un sesto di impianto (4×4 metri, con circa 600 piante all’ettaro), in realtà più adatto a produrre biomassa che legno d’opera. “Nella stragrande maggioranza delle piantagioni piantumate con questo sesto – spiega ‘Paulownia Italia’ – a prescindere dal tipo di ibrido, anche nei casi in cui le piante abbiano fatto segnalare tassi di crescita importanti nel corso dei primi 3 o 4 anni, dopo la crescita si è rallentata fino quasi ai livelli di altre piante da legno”. Non raggiungendo, dunque, il diametro del tronco che serve perché gli alberi acquistino valore commerciale per le aziende che lavorano il legname.
A cosa stare attenti – I vantaggi della Paulownia sono diversi, ma c’è anche qualche rischio. Come per qualsiasi piantagione, quando si parla di crediti di carbonio, la storia in Europa insegna quanto sia necessaria la trasparenza sulle effettive compensazioni delle emissioni da parte di chi inquina e perché occorre valutare gli effetti (anche sulla biodiversità) della caccia a legno e biomasse. Nel 2018 il Wwf Chieti-Pescara segnalava la trasformazione, in diversi terreni agricoli, di vigneti e incolti, nei quali “erano però presenti querce, olmi e altre piante della flora mediterranea”. Il timore, insomma, è quello di una trasformazione eccessiva delle colture, un po’ come è avvenuto con le palme da olio in Indonesia e della cancellazione di paesaggi tradizionali per fare affari con legno e biomassa. “Il rischio di speculazioni c’è – spiega a ilfattoquotidiano.it Silvia Piconcelli, dell’area sviluppo sostenibile di Confagricoltura – un po’ come c’è stato per il bambù, anche se in questo caso la crescita rapida aiuta. È importante che si segua il principio a cascata nell’utilizzo delle diverse parti: quella più pregiata per il legno, rami e ramaglie per il pellet”. Favorevoli? “Con prudenza. Può essere una fonte di reddito per un’azienda agricola ma, essendo una specie autoctona – aggiunge – va a modificare degli habitat, anche se parliamo di colture monospecifiche”. Ad oggi, proprio il fatto di essere autoctona, la esclude dai programmi di sviluppo rurale delle Regioni e dai sussidi nell’ambito della Politica Agricola Europea. Per i sostenitori della Paulownia è un ostacolo, ma “è anche un filtro per evitare una diffusione senza limiti”. Tra l’altro, nota Silvia Piconcelli “le piantagioni che ho visto sono soprattutto monospecifiche, quando in realtà tra i vantaggi della Paulownia c’è il fatto che si tratta di un albero che può essere facilmente alternato ad altre colture”.
Foto: Hobby Garden Navigli di Milano