Sono cinque milioni e non possono votare: i fuori sede, anche in occasione del prossimo voto politico del 25 settembre, non potranno esprimere le proprie preferenze se non tornando nel proprio comune di residenza. Si amplia, così, il filone dell’astensionismo: a quello volontario – dato per vincitore ai seggi secondo tutti i sondaggi – si aggiunge quest’ultimo, involontario, “forzato”. Nelle prossime settimane si moltiplicheranno gli appelli alla partecipazione da parte di tutti i partiti. Ma anche per questa legislatura sono rimaste lettera morta tutte le proposte per sanare la situazione. Nonostante i continui appelli e nonostante le decine di migliaia di firme della petizione “Io Voto Fuori Sede”, il Parlamento della XVIII Legislatura non ha sentito l’obbligo di approvare una legge al riguardo. In Europa, un caso isolato: l’Italia è l’unico Stato (oltre a Malta e a Cipro) a non permettere il voto a distanza.
Una legge entro sei mesi – Per evitare che il problema sia ulteriormente prorogato, la no profit The Good Lobby (insieme al Comitato Io Voto Fuori Sede) ha scritto a tutti i segretari di partito per chiedere un impegno pubblico ad approvare entro i primi sei mesi dall’insediamento del nuovo Parlamento una legge sul voto a distanza: “Le soluzioni a questo problema decennale ci sono, esistono”, afferma Federico Anghelé, direttore di The Good Lobby. “All’interno del Libro Bianco Per la partecipazione dei cittadini: come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto presentato ad aprile, ci sono proposte organiche e adeguate a risolvere il problema in maniera efficace”. E allora cosa è mancato? “La volontà politica. Con la nostra richiesta speriamo che la prossima legislatura s’impegni a raggiungere questo obiettivo fondamentale per la nostra democrazia, rispondendo alla richiesta di quasi 5 milioni di “astensionisti involontari”, i fuori sede, che vedono negarsi costantemente da anni il loro diritto di voto”. L’organizzazione è da sempre impegnata sul tema: lo scorso 10 giugno aveva depositato un atto di citazione per violazione del diritto di voto di lavoratori e studenti fuori sede al Ministero dell’Interno e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il caso aveva riguardato Genova, dove, precisa in una nota The Good Lobby, più di 18mila non sono stati autorizzati a votare alle Amministrative.
Tentativi falliti – Ci aveva provato in aprile la Commissione istituita dal ministero (ex) pentastellato per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, coordinata dal professor Franco Bassanini. Erano state identificate due grandi categorie di astenuti: i 4,9 milioni di fuorisede e i 4,2 milioni di anziani con difficoltà di mobilità. Alla base della proposta c’era la sostituzione del tradizionale certificato elettorale di carta con un Certificato elettorale digitale, un “election pass”, da impiegare seguendo “la tecnologia ampiamente sperimentata con il green pass”. Presupposto dell’innovazione, diceva lo stesso D’Incà “è l’integrazione delle liste elettorali nell’Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), già prevista da una disposizione del decreto-legge “Semplificazioni-bis”. L’idea era scaricarlo sul proprio smartphone (o stamparlo in forma cartacea) e poi verificarlo in tempo reale al seggio attraverso app. Grazie a quest’ultima sarebbe stato possibile identificare il seggio elettorale di residenza dell’interessato. La stessa app avrebbe poi permesso di stampare seduta stante le schede elettorali da inviare poi al seggio di residenza. Con questo sistema, inoltre, gli anziani con difficoltà motorie avrebbero potuto votare in seggi senza barriere. Si voleva poi a permettere il voto – il giorno stesso delle elezioni – in tutti quelle urne collocate nella stessa circoscrizione o collegio elettorale. Infine, fra le proposte, c’era anche la concentrazione degli appuntamenti elettorali (due, non di più).
The Good Lobby aveva accolto l’idea con favore, come si legge in una nota dell’organizzazione: “Un ribaltamento della prospettiva che fino a ora aveva accompagnato ogni proposta in questo campo e che prevedeva che fossero solo specifiche categorie di cittadini a dover giustificare la loro richiesta di voto da remoto. Questa soluzione permetterebbe inoltre di superare il sistema dei rimborsi elettorali, consentendo un significativo risparmio per le casse dello Stato”. Si attendeva una discussione della legge a maggio, ma non se ne è fatto nulla. Un problema analogo si era verificato nel 2021, con il no del Viminale alle proposte per le comunali e le regionali. Il motivo era da ricercare in problemi tecnici “insormontabili“ che impedivano l’approvazione da parte del Parlamento. Vittoria Baldino, capogruppo del M5S in commissione Affari costituzionali, in aprile aveva ricordato come il voto elettronico sarebbe stato utile: “Sostenuto con uno stanziamento di un milione di euro ma ulteriormente prorogata, avrebbe invece potuto rappresentare un tassello fondamentale nel percorso di innovazione e digitalizzazione dei processi di voto, con l’obiettivo proprio di facilitare la partecipazione dei giovani alla politica, perché questa é una battaglia che ci riguarda tutti”.
I Paesi in Europa – In Francia, come ricorda un report di The Good Lobby, gli elettori fuori sede hanno la possibilità di votare per delega. Sono loro stessi a nominare una persona incaricata di sostituirli. La stessa misura è disponibile in altri Stati, fra cui ad esempio Belgio e Svezia. C’è poi la possibilità del seggio anticipato, che prevede il voto il giorno prima delle elezioni, o del seggio speciale, che consente la votazione a chi si trovi in istituti di cura, ospedali e prigioni: all’elettore basta andare in una stanza predisposta all’interno della struttura. Queste possibilità sono possibili in molti Pasi, dalla Danimarca alla Polonia all’Ungheria. Un’altra modalità è l’I-voting, cioè il voto elettronico (un esempio è l’Estonia) e quello per corrispondenza, come nel caso della Spagna: si può richiedere in qualsiasi ufficio postale oppure per via telematica. Solo Malta e Cipro non hanno alternative al voto fisico, come l’Italia. Non ne hanno mai trovate perché, data la loro limitata estensione geografica, non ne hanno bisogno. A differenza, invece, dell’Italia.