In un momento in cui gli occhi del mondo sono puntati verso altre latitudini, a fine luglio si è tenuta a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, una conferenza internazionale sull’Afghanistan. La più importante da quando i Talebani sono tornati al potere. L’evento ha visto la partecipazione di un centinaio di delegazioni in rappresentanza di 30 Paesi che hanno avuto modo di confrontarsi con i leader del movimento fondamentalista. Ai lavori hanno preso parte anche funzionari del governo degli Stati Uniti, dell’Onu e dell’Unione europea, ma è stato evidente come la conferenza abbia sancito una volta di più che la vicenda afgana è ormai quasi esclusivamente una partita asiatica.
Durante i lavori si è registrata l’ennesima dichiarazione dei Talebani sul loro rifiuto di fare del territorio afgano un santuario del terrorismo, a cui è seguita l’importante apertura di Washington alla possibilità che vengano sbloccati gli oltre 3 miliardi di dollari di riserve della banca centrale di Kabul depositati negli Usa. Un timido passo avanti che la successiva uccisione a Kabul di Ayman al-Zawahiri, leader di al-Qaeda, potrebbe aver reso vano. Come a dire, dei Talebani è bene non fidarsi.
A Tashkent sono stati però soprattutto gli attori regionali a dettare la linea di quanto discusso. Risultati concreti non sono stati raggiunti, ma l’Uzbekistan è stato in prima fila – insieme all’altro gigante regionale, il Kazakistan – nel chiedere che l’Afghanistan venga fatto oggetto di investimenti, soprattutto infrastrutturali. Il leader uzbeco, Shavkat Mirziyoyev, vuole trovare percorsi comodi e sicuri verso i porti del Pakistan e il territorio afghano rappresenta una scorciatoia che sarebbe molto utile poter attraversare. Anche considerando che la rotta nord verso la Russia, alla luce dell’invasione dell’Ucraina orchestrata da Vladimir Putin e di tutte le conseguenze geopolitiche che il conflitto ha avuto, è di difficile percorrenza. Uno dei progetti cardine della strategia dell’Uzbekistan è la ferrovia trans-afghana, di cui al momento esiste solamente il primo tratto, che consentirebbe alle merci uzbeche di raggiungere gli hub marittimi pachistani con un risparmio di tempo estremamente significativo, passando dagli attuali 35 giorni a solamente 3-5 giorni. L’opera garantirebbe anche entrate finanziarie fondamentali per le prosciugate casse dei Talebani, ma numerosi problemi – geografici, economici e di sicurezza – restano sul tavolo.
Parlando di coinvolgimento economico del nuovo governo afghano, entra di prepotenza in gioco la Cina, vero deus ex machina degli investimenti nella regione, siano essi targati Nuova Via della Seta (BRI) o meno. Subito dopo la presa del potere da parte del movimento fondamentalista, Pechino non ha perso occasione per sottolineare la sua preoccupazione relativamente al radicalismo dei Talebani, pericoloso agli occhi cinesi soprattutto in relazione alla questione dello Xinjiang. Col passare dei mesi la Repubblica Popolare ha però capito che la stabilità del Paese e della regione sono il miglior antidoto contro possibili infiltrazioni terroristiche e i toni della propaganda sono cambiati di conseguenza, mettendo in luce le potenzialità economiche afgane. Le autorità cinesi mirano a sfruttare il loro peso per mettere le mani su almeno parte delle ricchezze minerarie dell’Afghanistan e in tal senso i funzionari di Pechino sono molto attivi. Nel dicembre 2021 è stato inaugurato un gruppo di lavoro bilaterale con i Talebani, nell’ambito del quale sono oggetto di discussione anche l’aiuto che la Cina può dare al governo di Kabul per la ricostruzione economica, la riattivazione a pieno regime dell’attività mineraria e la facilitazione dell’esportazione di prodotti e materie prime verso il territorio cinese.
Se si guarda con attenzione alla strategia cinese in Afghanistan, si può notare tra le righe anche come la Repubblica Popolare voglia evitare che i propri investimenti sul territorio afghano scatenino attentati e tensioni come quelli che si registrano ormai quasi quotidianamente in Pakistan. Quest’ultimo è uno dei Paesi storicamente più interessati dal finanziamento del Dragone a grandi opere infrastrutturali, ma i rappresentanti e le maestranze cinesi sono spesso fatti oggetto di attentati da parte di gruppi separatisti che si oppongono sia al governo centrale di Islamabad che alla presenza straniera. Non a caso, un recente studio del Green Finance and Development Center della Fudan University di Shanghai indica che nei primi sei mesi del 2022 gli investimenti della Cina in Pakistan sotto l’ombrello della BRI sono calati del 56%, principalmente a causa delle turbolenze politiche interne e del timore che il Pakistan possa fare la fine dello Sri Lanka. Un chiaro segnale che la frenesia economico-finanziaria di Pechino sta diventando meno forsennata e più ragionata.
La natura regionale della questione afgana è messa in luce anche guardando ai rapporti diplomatici che la leadership talebana è riuscita a stringere in questi 12 mesi, seppur a livello mondiale non si registri nessun riconoscimento ufficiale dell’Emirato Islamico. Alcuni attori, come l’Uzbekistan, l’Iran, il Qatar, l’Arabia Saudita e la Malesia, consentono alle ambasciate afghane di seguire le direttive del ministero degli Esteri talebano nell’organizzazione degli affari consolari, mentre quattro Paesi – il Turkmenistan, il Pakistan, la Cina e la Russia – hanno addirittura accettato le credenziali diplomatiche di rappresentanti del movimento. Difficilmente si arriverà in tempi brevi a maggiori concessioni su questo fronte, ma un eventuale aumento dei rapporti economici e commerciali dovrà necessariamente essere accompagnato da un parallelo e più approfondito dialogo politico.
Un fattore che risulta evidente osservando l’Afghanistan un anno dopo il ritorno al potere dei Talebani è che numerosi vicini regionali considerano la loro leadership destinata a durare nel tempo. Una consapevolezza che spinge alcuni Paesi a cercare un crescente coinvolgimento economico e relativamente alla dimensione logistica e della connettività. Si tratta di sforzi che andrebbero supportati a livello internazionale, soprattutto se portati avanti da attori alternativi alla Cina, per valutare le reali intenzioni di apertura almeno economica dell’ala più pragmatica dei Talebani e cercare di ridurre l’isolamento della martoriata popolazione afgana.