Un anno fa, il 15 agosto, i talebani riprendevano il potere a Kabul: vent’anni di guerra – e centinaia di migliaia di vittime – dopo, l’Afghanistan tornava alla casella di partenza. Gli Stati Uniti, che avevano negoziato quella transizione immaginandola ben diversa, e tutti i loro alleati si rendevano protagonisti di una ritirata caotica e tumultuosa, una fuga ignominiosa: incapaci di costruire altro che un governo fantoccio inetto e corrotto; e anche solo di organizzare un’uscita di scena ordinata. La mancanza di preveggenza dell’amministrazione Trump nella trattativa con i talebani e l’impreparazione dell’amministrazione Biden confezionarono un disastro senza precedenti: il caos all’aeroporto di Kabul fu una tragica dimostrazione di inaffidabilità e di incompetenza.

‘Non vi dimenticheremo mai’, si diceva e si scriveva in quei giorni. Non avremmo mai dimenticato, cioè, gli afghani che avevano creduto in un Paese nuovo e democratico, soprattutto le donne che avevano sperato nell’istruzione e nel lavoro e che di colpo precipitavano di nuovo nel Medio Evo del burqa e dell’assenza di diritti. Noi ce ne andavamo, loro restavano alla mercé di ritorsioni e abusi. Invece, ce ne siamo dimenticati. Presi dalla pandemia, dall’inflazione, dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, dell’Afghanistan non parliamo più.

Non è una sensazione. E’ un dato di fatto: dal primo al 15 agosto 2021, giorno del ritorno dei talebani al potere a Kabul, l’Ansa lanciò 198 serie di notizie con il titolo sull’Afghanistan (e 311 che parlavano di Afghanistan); dal primo al 10 agosto 2022 gliene ha dedicate sette, oltre a una trentina di dispacci in cui si cita l’Afghanistan, ma in relazione all’uccisione con un drone della Cia a Kabul del leader di al Qaida Ayman al Zawahiri, eliminato il primo agosto mentre era sul balcone dell’appartamento in cui s’era impudentemente, e pure imprudentemente, installato, in un quartiere elegante della capitale afghana.

L’eliminazione di al Zawahiri è stata presentata come un successo dell’intelligence statunitense. Ma è stata anche una conferma dell’inutilità di una guerra durata vent’anni. Pur se i talebani sostengono di non sapere nulla della presenza a Kabul del successore di Osama bin Laden, la sua uccisione lì è una prova dei legami mai sciolti tra il regime afghano e la rete del terrorismo integralista islamico: secondo il Pentagono, ci sono altri esponenti di al Qaida in Afghanistan, “un piccolo numero”.

Eppure i talebani avevano garantito che la loro alleanza con al Qaida era finita: assicurazioni fallaci, come molte altre date. Ma che non ci fosse (troppo) da fidarsi lo si sapeva dall’inizio dei negoziati, perché gli “studenti islamici” non sono un monolite, ma sono anzi “divisi in fazioni”, come ricorda in questi giorni il Washington Post.

Se gli operativi di al Qaida sono relativamente pochi, i miliziani dell’Isis, sedicente Stato islamico, sono ancora – nelle stime dell’Onu – circa 10 mila, sparsi tra Siria e Iraq, Afghanistan e Pakistan, Medio Oriente e Africa sub-sahariana; e possono contare su risorse di un valore che oscilla tra i 25 e i 50 milioni di dollari. Le cronache più recenti indicano che le frizioni fra talebani e miliziani dell’Isis continuano a fare vittime. Giovedì 11 agosto un alto esponente religioso talebano. noto per i discorsi infuocati anti-Isis, è stato ucciso nella sua madrassa a Kabul: l’attacco suicida è stato rivendicato dai miliziani – tre altre persone sono rimaste ferite nell’esplosione.

Rahimullah Haqqani era sopravvissuto ad almeno due precedenti tentati omicidi, uno in Pakistan nell’ottobre 2020. Sebbene non avesse incarichi ufficiali, era una figura influente e aveva predicato a molti ‘studenti’ nel corso degli anni. Lo Stato islamico ha affermato sui suoi social che l’attentatore ha fatto detonare il suo giubbotto esplosivo nell’ufficio del religioso.

L’Isis ha rivendicato numerosi attacchi in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani, cui contesta la trattativa con gli Occidentali. Haqqani era un fustigatore dei miliziani e, di recente, aveva anche sostenuto il diritto delle ragazze a frequentare la scuola: “Nella sharia non c’è motivo per dire che l’istruzione femminile non è consentita”. È scontato che, tra il 15 agosto e la fine del mese – la rotta dell’Occidente si ultimò il 31 agosto, dopo giorni di tregenda sull’aeroporto di Kabul -, i media alzeranno l’attenzione sull’Afghanistan, per raccontare quel che avviene nel Paese. Ci saranno interviste a chi è riuscito a venire via, ottenendo lo statuto di rifugiato in Italia o altrove in Europa e negli Stati Uniti, e reportage su chi non ha voluto, o potuto, venire via e testimonia la crisi umanitaria e l’involuzione socio-culturale della capitale e del Paese dal ritorno dei talebani e dalla fondazione del secondo emirato islamico. Una fiammata d’attenzione, che presto si spegnerà.

Come stanno le cose in Afghanistan ce lo possono riferire coloro che non hanno mai abbandonato la popolazione al suo destino, le organizzazioni umanitarie, Medici senza frontiere, Emergency. Proprio la Ong fondata da Gino Strada “conta più di 16.000 ammissioni negli ospedali di Kabul, Lashkar-gah, Anabah”. Sulle oltre tremila ammissioni nella capitale in un anno, le vittime di guerra rappresentano ancora il 93,5% dei pazienti: per l’80%, oltre 2.000 casi, sono feriti da arma da fuoco, ma si registrano anche feriti da armi da taglio, ricollegabili all’aumento della criminalità; il 5% continuano a essere feriti da mine e ordigni inesplosi.

Spesso si tratta di bambini e minori. Un comunicato di Emergency riferisce: “L’Afghanistan è colpito da una crisi economica senza precedenti, che affama la popolazione a causa di oltre 40 anni di guerra – l’occupazione sovietica, l’offensiva dei talebani, l’intervento occidentale, ndr – dell’isolamento e delle sanzioni, del congelamento delle riserve afghane all’estero e della conseguente crisi bancaria e finanziaria, dell’inflazione con l’aumento di circa il 50% dei prezzi di cereali e carburante”.

Secondo la missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, l’Unama, almeno il 59% della popolazione necessita oggi di assistenza umanitaria, 6 milioni di persone in più rispetto all’inizio del 2021. Un aumento della povertà che Emergency conferma dall’osservatorio di ospedali e cliniche di primo soccorso e salute primaria nelle province di Kabul, dell’Helmand e del Panshir. “Nel nostro centro chirurgico per vittime di guerra a Kabul – spiega Stefano Sozza, direttore dell’Ong in Afghanistan – curiamo quotidianamente feriti da arma da fuoco, da proiettili a schegge, da arma da taglio, soprattutto coltellate, da esplosioni di mine e ordigni improvvisati. Il Paese soffre le conseguenze di un lunghissimo conflitto che ha minato il suo futuro”. E noi ce lo siamo dimenticati.

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