di Alessio Cimino

Pare che questa locuzione sia figlia di alcuni personaggi come il filosofo Gorz, l’economista Latouche o altri. Se così fosse, costoro sicuramente non avranno avuto un buon marketing manager, o se lo avessero avuto avrebbero dovuto licenziarlo.

Il termine “decrescita” è veramente brutto ed evoca scenari depressivi. Innanzitutto ha creato le condizioni affinché una classe predatrice come quella ultraliberista si appropriasse come un mantra del suo opposto, ovvero il termine “crescita”. Gli ultraliberisti non fanno altro che esaltare il termine “crescita”, e caspita hanno più che ragione, la crescita è una cosa bellissima. In secondo luogo, la crescita è una condizione ontologica sia dell’uomo che della società. Nasci e cresci, punto. Le società nascono, si evolvono, progrediscono (tra mille inciampi, per carità) ma nei fatti vanno in una direzione di crescita. La crescita è una condizione intrinsecamente vera, quindi giusta.

Di contro, il termine “decrescita” evoca immediatamente scenari di regressione, ritorno a società luddiste ed arretrate, rinuncia al progresso e comodità conquistate. Ma in realtà la “decrescita”, per quanto detto prima, semplicemente non esiste, è un termine contro natura. Piuttosto direi che le visioni di società diverse che contrappongono gli esponenti della “crescita” e quelli della “decrescita” dovrebbero coniarsi in più appropriate locuzioni declinando solo il secondo termine ovvero la parola “felicità” e dunque contrapporsi in “crescita felice“ contro “crescita infelice”. Ovviamente aprire lo scenario alla parola “felicità” si espone ad interpretazioni soggettive (anche se esiste l‘Happy Planet Index introdotto dal Nef nel 2006 nel tentativo di sostituire l’obsoleto Pil come indice composito per valutare il benessere di una nazione). Come orientarsi?

Possiamo cominciare a chiederci se, nonostante le condizioni materiali del nostro vivere (denaro, beni materiali, libertà e democrazia) siamo felici. Lo siamo? Un’idea potremmo iniziare a farcela guardando con sospetto all’aumento delle malattie mentali e l’utilizzo di antidepressivi in occidente. Altri indicatori potrebbero riguardare lo stato della nostra socialità, delle relazioni con gli altri e con l’ambiente circostante. Oppure, per scendere sul piano di battaglia, possiamo chiederci: la redistribuzione di denaro e opportunità è “crescita” o no?

Sicuramente molti miliardari avrebbero una decrescita dei loro averi e delle loro opportunità, ma di converso una moltitudine di altre persone potrebbe uscire dalla povertà, il ceto medio avere più potere d’acquisto, un numero maggiore di persone ne guadagna rispetto ai miliardari che ci perdono: non è evidentemente un saldo in “crescita”? La redistribuzione non è dunque una “decrescita” (felice o no!), bensì l’opposto, è crescita. Cambiare modello di cellulare ogni 6 mesi per quello nuovo o riempire scatoloni e armadi di vestiti semi-nuovi perché fuori moda nel giro di una stagione è crescita felice? Cosa cresce? La spazzatura, l’inquinamento, il portafoglio di pochi produttori di questi beni a scapito di un numero maggiore di persone che si impoverisce inutilmente, usa male il proprio tempo (ad esempio passando ore nelle app di scontistica) e cova continue esigenze impulsive che peggiorano il benessere mentale.

Di fatto questo modello di business risulta una crescita di valori deteriori, negativi per tante persone, mentre una società anche solo lievemente meno consumista corrisponde ad una crescita di benessere individuale e collettivo ma anche di denaro risparmiato da parte dei ceti non ricchi. Non ho la pretesa di trovare l’indicatore esatto e risolvere la controversia. La disputa tra i sostenitori della “crescita felice “e la “crescita infelice” semplicemente vedrà attribuirsi agli altri la locuzione avversa. Concludo con un esempio: fissione nucleare-crescita felice: ha trovato utilizzo anche in applicazioni per lo sviluppo della medicina. Fissione nucleare-crescita infelice: bomba atomica.

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