Che il professore Andrea Crisanti e i leghisti non si amassero lo si era capito già due anni e mezzo fa, all’inizio della pandemia, quando il microbiologo aveva cominciato a criticare la politica sanitaria della Regione Veneto e il governatore Luca Zaia aveva replicato schierandogli contro un drappello di esperti e dirigenti. Adesso se ne ha solo una conferma, con uno scontro diretto tra il docente dell’Università di Padova e il segretario Matteo Salvini, che nel volgere di poche ore ha fatto infiammare la campagna elettorale, dopo l’annuncio che Crisanti sarà candidato dal Pd.

Crisanti ha confermato: “Sono onoratissimo di essere stato candidato dal Partito Democratico”. Subito Salvini ha twittato. “Il tele-virologo Crisanti candidato col Pd. Credo che ora si capiscano tante cose”. Ha sottolineato il verbo “credo”, per marcare lo slogan elettorale che ha scelto. Ma Crisanti non è tipo da restarsene zitto, infatti ha subito replicato: “Mi rivolgo agli elettori di Salvini: gli errori che ha fatto, le valutazioni, in politica estera, in sanità, in economia, sono la garanzia degli errori che potrà fare se avrà la possibilità di governare”. In poche parole ha indicato un ventaglio completo di settori in cui il leader leghista avrebbe dimostrato le proprie debolezze. E ha rincarato: “Bisogna combattere centimetro per centimetro questa destra: il Pd deve guardare alla società e dare risposte ai deboli e questo sarà il mio contributo. Bisogna spiegare che le tasse hanno un valore sociale, ad esempio”. Ha poi sottolineato il fatto che il suo nome è nella lista degli elettori esteri: “Ha un valore simbolico incredibile: ho avuto uno zio emigrato, e grazie ai soldi che mandava ogni mese a mia madre mi ha permesso di studiare. In più ho passato 30 anni all’estero per lavoro e non è un caso”.

Nessuno dei due è entrato nel merito in modo più preciso. Ma è intuibile che Salvini si riferisca alle critiche di Crisanti alla gestione dell’emergenza Covid, quando il docente accusava la Regione Veneto di privilegiare i tamponi rapidi, rispetto ai molecolari, che così non intercettavano il 30 per cento dei soggetti positivi, che potevano andarsene in giro convinti di essere sani. Crisanti, poi, ha sempre difeso il proprio contributo alla guerra alla pandemia, a cominciare dal caso di Vo’ Euganeo, dove nel febbraio 2020 si verificò il primo decesso. Il conflitto di opinioni tra Crisanti e il governatore Luca Zaia è cominciato nella primavera di quell’anno. La premessa è costituita da un fatto: le elezioni supplettive in provincia di Verona, per un posto rimasto vacante dopo la morte di un parlamentare di Fratelli d’Italia. Cominciò a girare voce che il Pd avesse offerto la candidatura a Crisanti. Era troppo per Zaia, che già aveva colto in Crisanti la voce più autorevole di un intollerabile controcanto. A maggio di quell’anno, Zaia dichiarò in un’intervista: “Crisanti faccia il professore, non il politico”. Il governatore che a settembre sarebbe stato rieletto con una maggioranza del 76 per cento, aveva marcato il territorio. A decidere la politica regionale sarebbe stata la Regione, con i suoi collaboratori. Anzi, Zaia difendeva la propria squadra contro gli eretici che ne mettevano in dubbio l’efficienza. Nella prima ondata della pandemia gli era riuscito tutto alla perfezione, al punto da esibire ogni giorno nelle conferenze stampa i successi della sanità veneta rispetto ad altre situazioni, non seconda la vicina Lombardia.

Ma in autunno il Veneto aveva cominciato a contare record negativi, in termini di contagi e di decessi, se rapportati alla popolazione. E così la perfetta macchina anti-Covid di Zaia aveva mostrato vistosi sbandamenti, al punto che le minoranze nel 2021 avevano chiesto e ottenuto una commissione d’inchiesta per scoprire eventuali errori o sottovalutazioni. Crisanti aveva individuato in quella crescita di casi il possibile effetto della scelta di effettuare troppi tamponi rapidi, a scapito di quelli molecolari molto più sicuri, come poi confermato anche dal ministero della Sanità. Zaia replicava durante le conferenze stampa facendo sfilare esperti, direttori delle Ulss e docenti universitari. Non ci sono altre regioni italiane dove si sia verificato un confronto altrettanto acerrimo sul fronte del Covid.

La dimostrazione di quanto cruenta sia stata questa disfida medico-politica è costituita da altri due capitoli. Nella primavera 2021 si seppe che dalla Regione Veneto (segnatamente dalla direzione generale di Azienda Zero, la società che gestisce la sanità veneta) era partita una denuncia nei confronti di Crisanti. Era stato dato mandato a un legale di verificare se alcune prese di posizione contro la politica regionale contenessero profili diffamatori. Zaia disse che lui non ne sapeva nulla. Roberto Toniolo, direttore di Azienda Zero, dichiarò che non c’era nessun esposto, solo una segnalazione basata su ritagli di giornali e registrazioni di interviste. Tutto però era partito a gennaio 2021 dai vertici della Sanità veneta, probabilmente indispettita per gli attacchi di Crisanti.

In particolare, il professore aveva dichiarato di essere stato l’ispiratore del piano di contenimento della pandemia avviato a marzo 2020, tanto da scriverci un articolo per Nature, mentre Zaia sosteneva che la struttura regionale era già pronta da un mese. Crisanti aveva replicato mostrando le lettere che aveva scritto in Regione, consigliando che cosa si dovesse fare. Il secondo capitolo è la rivincita di Crisanti, che a sua volta aveva denunciato Azienda Zero per la scelta di effettuare i tamponi rapidi su vasta scala. A giugno la Procura di Padova ha chiesto il rinvio a giudizio del microbiologo Roberto Rigoli, nel 2020 indicato come il padre dei tamponi rapidi, ora alla direzione dei Servizi sociali dell’Usl 2 Marca trevigiana. Secondo l’accusa, Rigoli avrebbe accertato falsamente la validità dello strumento diagnostico. Nell’inchiesta è coinvolta anche Patrizia Simionato, già direttore di Azienda Zero, che aveva firmato la delibera con cui il Veneto aveva comprato circa mezzo milione di tamponi, per un valore di due milioni di euro. Le ipotesi riguardano, a diverso titolo, il falso ideologico e la turbativa d’asta. Rigoli aveva infatti dichiarato di aver testato i temponi, certificandone l’idoneità scientifica, cosa che – secondo l’accusa – non avrebbe fatto

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