Economia

Pensioni, flat tax, salario minimo e contratti: tutte le promesse del programma della Lega che nell’accordo di centrodestra non ci sono

Non solo le differenti posizioni rispetto agli alleati sulla guerra in Ucraina, sulla Nato e sul reddito di cittadinanza. Anche su previdenza, tasse e lavoro il Carroccio va per la sua strada rispetto ai contenuti dell'accordo quadro firmato con FI e FdI. Nelle oltre 200 pagine di proposte in vista del voto compaiono quota 41 (che costa oltre 9 miliardi), una "tassa piatta" che in realtà comporterebbe 18 diverse aliquote, il salario minimo depotenziato che piace a Orlando e il "rinnovo immediato dei ccnl scaduti" che violerebbe l'autonomia delle parti sociali

L’ultima pillola, datata 16 agosto, ruota intorno alla sempreverde promessa di superamento della legge Fornero con il passaggio a quota 41: tutti in pensione una volta totalizzati 41 anni di contributi. Da qualche giorno Matteo Salvini dispensa quotidianamente sui social un Credo” (dallo slogan della campagna elettorale leghista), cioè una promessa pescata dallo sterminato programma del Carroccio pubblicato venerdì scorso. Oltre 200 pagine in cui anche sul fronte economico – dal fisco al salario minimo – spiccano molte differenze sostanziali rispetto ai contenuti del sintetico Accordo quadro per un governo di centrodestra concordato con Forza Italia e Fratelli d’Italia. Problema: se, come prevedono tutti i sondaggi, il partito di Giorgia Meloni si confermerà traino della coalizione data per probabile trionfatrice alle urne, il leader leghista e i suoi elettori dovranno digerire l’addio a molti cavalli di battaglia del Carroccio. Del resto Meloni già a fine luglio aveva ammonito gli alleati a non fare “promesse che non si possono mantenere“.

Lega spericolata su Quota 41 – Partiamo proprio dalla previdenza: visto che per varare la prossima legge di Bilancio il nuovo governo avrà poco tempo e poche risorse (al netto di oltre 20 miliardi di spese obbligate), nei 15 punti dell’accordo di coalizione ci si limita a promettere “flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione favorendo il ricambio generazionale”. Flessibilità che del resto in qualche forma è stata concessa negli ultimi anni da tutti gli esecutivi: prima della Quota 100 cara a Salvini, chiesta solo da 380mila persone, ampiamente sotto le attese, c’erano state l’Ape volontaria e l’Ape social di Renzi (quest’ultima ancora in vigore) oltre all’Opzione Donna prevista fin dal 2004, recepita dalla Fornero e sempre prorogata. La Lega sprezzante del pericolo si spinge ben più in là. “I lavoratori raggiungono il diritto alla pensione anticipata di anzianità con 41 anni di contributi”, mette nero su bianco. Nessun cenno alle coperture di una misura che secondo l’Inps costerebbe oltre 9 miliardi in un decennio. Non solo: “Per le donne si aggiunge un anno di contributi figurativi per ogni figlio”. E “per le lavoratrici il diritto alla pensione di vecchiaia matura a 63 anni (oggi 67) di età e almeno 20 anni di contributi”. Seguono la proroga dell’Ape social e la stabilizzazione Opzione donna. E non manca la pensione di garanzia per i giovani (non è specificato con che limite di età): 1000 euro indipendentemente dall’ammontare dei contributi versati.

La flat tax con 18 aliquote – Cuore oltre l’ostacolo anche sul fronte del fisco. L’accordo di centrodestra – concorde nell’offrire una nuova pace fiscale deleteria per l’erario – prevede l’ampliamento della flat tax al 15% per le partite Iva ai redditi fino a 100mila euro, mentre per gli altri contribuenti recepisce la proposta “conservativa” di FdI di introdurre una tassa piatta incrementale – cioè sull’aumento di reddito rispetto all’anno prima – e per il futuro si accontenta di ventilare la “prospettiva di ulteriore ampliamento per famiglie e imprese” senza dettagli né date. La Lega ha un progetto assai più ambizioso che da un lato avrebbe pesanti costi per le casse pubbliche, dall’altro non semplificherebbe affatto il sistema fiscale: anzi, in corso d’opera – come ha fatto notare il deputato di Iv Luigi Marattin – le aliquote Irpef sarebbero addirittura 18. La “fase due”, come spiega il “programma di governo”, comprenderebbe infatti l’estensione dell’aliquota del 15% ai single con redditi fino a 26mila euro, alle famiglie monoreddito con entrate fino a 50mila e a quelle bireddito che ne guadagnino fino a 65mila. Ma oltre quelle soglie – come previsto dal ddl 1831 a prima firma Siri a cui il programma fa riferimento – l’aliquota crescerebbe progressivamente di uno o più punti a seconda della tipologia famigliare. Superati i 55mila euro per i nuclei monoreddito e i 70mila per quelli bireddito si tornerebbe alle normali aliquote Irpef che sarebbero però ridotte da quattro a tre. Risultato: 18 aliquote, appunto. Entro la fine della prossima legislatura dovrebbe poi realizzarsi il sogno della tassa piatta per tutti senza limiti di reddito.

Il salario minimo “versione Orlando” – Per la Meloni il salario minimo è uno “specchietto per le allodole” e l’importante è tagliare il cuneo fiscale come chiede Confindustria. Così il tema non compare nei 15 punti negoziati con gli alleati. Un po’ a sorpresa, invece, il Carroccio lo inserisce tra gli interventi necessari sotto la voce Lavoro. Si tratta però non del minimo legale in vigore nella maggior parte dei Paesi europei e sostenuto dal Movimento 5 Stelle bensì di quello “all’italiana” a cui aveva aperto il ministro dem Andrea Orlando, che consiste nell’estendere a tutti i lavoratori di un settore i minimi previsti dal Ccnl più rappresentativo. “È riconosciuto ai lavoratori un salario minimo pari a quello stabilito dai Ccnl più diffusi nel settore”, si legge infatti nel programma. Che non tiene però conto dell’esistenza di contratti firmati dai maggiori sindacati con minimi ben sotto la soglia di povertà.

Il rinnovo obbligato dei contratti scaduti – All’insegna del wishful thinking più sfrenato, poi, la previsione di “rinnovo immediato di tutti i ccnl scaduti”. Il tema c’è – oltre il 51% dei dipendenti è in attesa di un contratto collettivo aggiornato, con relativi aumenti di stipendio – ma firmare le intese spetta a sindacati e organizzazioni datoriali: un intervento a gamba tesa del governo sarebbe una grave violazione dell’autonomia negoziale. Le parti sociali, che proprio in nome dell’autonomia sono contrarie al salario minimo per legge, difficilmente gradirebbero.