In questi giorni di ripresa (consistente) dei viaggi in aereo degli italiani per le vacanze, hanno fatto rumore due notizie. La prima è l’annuncio di Ryanair di un possibile aumento dei prezzi vista la crescita di quelli del petrolio, e le sue lamentele per la congestione aeroportuale europea, attribuita ai gestori per le carenze di personale post pandemia e per gli scioperi dei controllori di volo. La seconda, come c’era da aspettarsi con la caduta del governo, è il rinvio della vendita (anche se molti la chiamano solo alleanza) di Ita Airways alla cordata MSC-Lufthansa, e il pessimo stato dei conti della compagnia emerso dalla semestrale chiusa con un passivo di 260 milioni di euro.
In Italia invece, nel deserto lasciato da Alitalia – predata da una politica clientelare e corporativa, basata su aiuti di Stato ripetuti, ammortizzatori sociali di lusso, bilanci in profondo rosso e coefficienti di riempimento sempre inadeguati – Ryanair ha trovato ben 41 scali disponibili, dei quali solo quattro o cinque presidiati dalle compagnie tradizionali.
Per capire le dinamiche del settore a livello europeo e italiano è meglio fare un veloce riepilogo. La Ryanair da sola 20 anni fa è uscita dagli stretti ranghi delle compagnie statali europee e ha cominciato ha giocare una partita senza rete di protezione pubblica, offrendo un servizio di trasporto nuovo che ha destabilizzato le compagnie statali monopoliste. Di low cost non c’era solo il biglietto. Ryanair ha lanciato le prenotazioni dei biglietti online senza sovraccarico delle agenzie turistiche e ha basato la sua fortuna sull’utilizzo di piccoli scali per evitare le congestioni e i ritardi dei grandi aeroporti, ma soprattutto per pagare tariffe dei servizi a terra nettamente inferiori. Niente pasti o bevande a bordo, se non a pagamento, quindi niente attese dei servizi di catering che potevano ridurre il numero di rotte quotidiane degli aerei anche grazie a una normativa contrattuale più “elastica” per il personale di volo.
La lobby delle compagnie statali un poco alla volta è crollata, anche grazie alla liberalizzazione che l’Unione Europea ha messo nero su bianco. Se ancora negli anni Novanta raggiungere in poche ore una capitale europea era un privilegio di pochi, in breve tempo una nuova opportunità si è spalancata anche per i redditi più bassi. Per mantenere un loro ruolo le compagnie tradizionali (Ba, Af, Klm, Iberia ecc.) hanno dovuto cambiare pelle (fusioni, alleanze, privatizzazioni totali o parziali, aumento della produttività, maggiore efficienza operativa) e spesso far nascere sussidiarie low cost per ostacolare Ryanair.
C’è da chiedersi se il trasporto aereo possa continuare a prescindere dal rispetto delle regole di base, come l’assistenza ai passeggeri – che di prassi non vengono risarciti in caso di ritardo o cancellazione dei voli o come la gestione dei naviganti aerei; piloti e assistenti di volo che in Ryanair si caricano dei principali costi di impresa, tra i quali quelli legati alla propria formazione, alle uniformi, al riordino degli aeromobili tra un volo e l’altro; personale qualificato che rimane disponibile a causa degli alti livelli di disoccupazione, soprattutto nel nostro paese, ma che è costantemente a rischio di migrare verso altre aziende con una reputazione migliore e un pacchetto normativo e retributivo più adeguato.
In questo contesto le compagnie tradizionali europee resistono. E’ cominciata così la gara degli aeroporti per assicurarsi la presenza della compagnia irlandese e successivamente delle altre low cost attraverso un sussidio mascherato (a differenza di quelli ad Alitalia, che invece erano e sono noti a tutti) permesso dall’Ue solo in minima parte e chiamato co-marketing.
Per tenere operativo un aeroporto i costi sono molto alti: vigili del fuoco, dogana, guardia di finanza, servizi sanitari e veterinari, polizia di stato, torre di controllo e struttura ministeriale dell’Enac. Poi a livello operativo le società di handling (quasi ovunque di proprietà del gestore aeroportuale a parte pochi privati che sono nei grandi aeroporti che fanno utili), il quale gestore spesso è di proprietà pubblica, regione, comune e delle camera di commercio. Gestioni aeroportuali che debbono sostenere i costi del personale, dei servizi centralizzati, della manutenzione della pista e i costi di energia. E questa situazione che ci caratterizza e ci affossa come paese non è riscontrabile in nessun altro stato europeo.
Se da noi in Italia abbiamo una media di 4,9 milioni di passeggeri per aeroporto, in Germania o in Gran Bretagna con la metà degli scali si superano gli 11 milioni di passeggeri medi a scalo. Per questo il contributo al Pil nazionale del settore è solo del 3,6%, di parecchio sotto la media europea che si attesta al 4,1%. Oltre ai noti sussidi, quasi una decina di miliardi di euro che da un ventennio entrano nell’idrovora di Alitalia, si calcola che siano almeno 250 milioni di euro l’anno gli incentivi mascherati ricevuti dalle compagnie aeree low cost (Ryanair è la maggiore beneficiaria) per farle volare in Italia. A questo vanno aggiunti i costi fissi della struttura pubblica degli aeroporti.
Una riflessione a questo punto si impone: quanto deve durare questo maxi sussidio pubblico al trasporto aereo? Fino a quando sarà ritenuta una bella notizia che Forlì abbia riaperto i battenti dopo 14 anni per gestire quattro voli settimanali su entrambe le rotte di Katowice (Polonia) Palermo dopo una lunga trattativa con Ryanair le cose non potranno andare bene. Forlì è a 76 km dall’aeroporto di Bologna e a 60 km da quello di Rimini.