Carlo Nordio da un quarto di secolo scrive che i magistrati o gli ex magistrati non dovrebbero fare i politici. Ma adesso, tentato dalle offerte di Giorgia Meloni, che a inizio anno lo aveva anche proposto per la presidenza della Repubblica, ha cambiato idea. Si candiderà alle elezioni di settembre, non dice con che partito, anche se tutti ormai sanno che si tratta dei Fratelli d’Italia, e probabilmente – in caso di vittoria del centrodestra – ha la strada spianata verso la poltrona di Guardasigilli, visto anche il gradimento che gode da lungo tempo ad Arcore e la sua adesione ai recenti referendum sulla giustizia che non hanno raggiunto il quorum. L’annuncio-conferma viene dato con una lettera indirizzata ai lettori de “Il Gazzettino”, il quotidiano veneto-friulano con il quale il magistrato settantatreenne collabora da trent’anni, e pubblicata nell’edizione del 19 agosto. “Cari amici lettori, in questi giorni sono state diffuse alcune notizie, che speravo restassero riservate, su una mia possibile candidatura alle prossime elezioni. Benché non siano ancora ufficiali, è giusto che voi siate i primi ad averne conferma da me”. La lettera comincia così, e siccome non viene smentito nulla sull’indicazione di una candidatura con il partito di Giorgia Meloni, la frase è un’implicita conferma della casacca che il magistrato trevigiano indosserà.
Mette subito le mani avanti: “Ho sempre sostenuto che un magistrato non dovrebbe entrare in politica durante il servizio, e nemmeno dopo, per evitare il sospetto che le sue inchieste fossero indirizzate a procacciarsi un consenso elettorale. Mi è stato obiettato che se il motivo è valido nell’immediatezza del congedo, quando sono ancora attuali le conseguenze delle indagini e le eventuali conseguenti polemiche, ciò non è più vero quando il tempo, padre di oblio oltre che di verità, ne ha sfumato o dissolto i contorni”. Nordio spiega così il cambio di opinione: “Poiché sono passati quasi sei anni dal mio congedo, e la magistratura mi sembra quasi un ricordo lontano, questi scrupoli non sono più giustificati”. Infatti è andato in pensione nel febbraio 2017, coprendo per alcuni mesi le funzioni di procuratore della Repubblica di Venezia. Quindi ritiene di aver messo una distanza sufficiente rispetto a quando rivestiva la toga.
Ma il vero motivo della sua scelta è anche un altro. “Vi è una ragione ulteriore che mi ha convinto ad accettare. Dopo aver per scritto, per oltre 25 anni, sulle criticità della nostra giustizia e sulla necessità di rimedi urgenti in senso garantista e liberale, la rinuncia a intervenire attivamente quando te ne viene offerta la possibilità sarebbe una mancanza di coraggio, o quantomeno un atteggiamento di incoerenza e di pigrizia”. Parole che possono far presagire la nomina a ministro della Giustizia. “Dopo aver sostenuto con convinzione la battaglia per i referendum, che sapevamo perduta in partenza e per ciò stesso più nobile e disinteressata, sarebbe irragionevole sottrarsi oggi a un impegno proprio in Parlamento, cioè sul terreno della produzione normativa. – continua Nordio – Le mie perplessità, prima di accettare, erano enormi, e sarebbe noioso elencarle. Ma la più dolorosa era quella di dover abbandonare i miei lettori del Gazzettino, dove fui chiamato dall’amico Giorgio Lago nel 1992”.
Il riferimento è al direttore del quotidiano che fu protagonista di una memorabile stagione giornalistica in Veneto, ai tempi di Mani Pulite. In quegli anni Nordio, che in precedenza si era occupato di Brigate Rosse e sequestri di persona, diresse a Venezia le inchieste di Tangentopoli. Fece finire sotto processo due ministri, il democristiano Carlo Bernini e il socialista Gianni De Michelis. Era il 1992 ed entrambi furono messi nei guai per le tangenti pagate dagli imprenditori sulla “bretella” autostradale dell’aeroporto Marco Polo. Nordio scoprì in Veneto una spartizione simile a quella che era avvenuta in tante altre parti d’Italia. Allora mise sotto inchiesta anche i vertici dell’ex Pci, in particolare Massimo D’Alema, per le attività delle “coop rosse”, senza però trovare tangenti e senza scoprire elementi sufficienti per chiederne il processo. Chiese così l’archiviazione della posizione di D’Alema, mentre la parte restante dell’istruttoria non ebbe praticamente conseguenze per i dirigenti comunisti. Nordio si è però sempre detto convinto che il sistema delle tangenti coinvolgesse anche il maggiore partito della sinistra italiana, come confermarono altre inchieste, in particolare quelle condotte dal “pool” milanese. Da procuratore aggiunto, con delega specifica per i reati delle pubbliche amministrazioni, si è occupato dell’inchiesta Mose, che a distanza di oltre vent’anni da Mani Pulite decapitò per la seconda volta la classe dirigente veneta, con l’arresto nel 2014 di Giancarlo Galan, forzista, ex presidente della Regione Veneto ed ex ministro.
Da sempre Nordio si definisce un liberale, affascinato dalla figura di Churchill e dal ruolo che lo statista inglese ebbe durante la Seconda Guerra Mondiale nella salvezza dell’Europa da Hitler e dalle dittature fasciste. Sulla giustizia è apparso come un pubblico ministero eretico, fautore del garantismo. “Non mi è piaciuto che molti colleghi di allora (epoca di Mani Pulite, ndr) siano poi entrati in politica alimentando così il sospetto, di certo sbagliato, di aver gestito strumentalmente le inchieste. Parlo per me: riterrei giusto che il Parlamento varasse una norma per impedire l’eleggibilità di un magistrato”. Così dichiarava nel 2012. Se quella legge fosse stata approvata, oggi non si potrebbe candidare.