Dario Mesolella è ingegnere aerospaziale. Partendo da Caserta, dove è nato, ha girato molti Paesi per trovare prospettive migliori rispetto a quelle italiane: "Ma tornerei, mi accontenterei anche di uno stipendio più basso. Vorrei un'azienda che punti sulla sostenibilità e che sia snella nel modo in cui si rapporta con i dipendenti"
Il primo campanello d’allarme, Dario Mesolella, ingegnere aerospaziale nato a Caserta, l’ha avvertito a 28 anni. Dopo un master negli Usa ha cercato un’azienda italiana disposta a fargli fare un tirocinio e non l’ha trovata: “Assumermi per tre mesi – spiega – sarebbe stato a costo zero per l’impresa, perché avevo vinto una borsa di studio della Regione Campania, ma alla fine sono dovuto andare all’estero, a Leuven”. Mesolella si è laureato nel 2013 in Ingegneria aeronautica a Roma dopo una triennale in Ingegneria aerospaziale alla Seconda Università di Napoli, a Caserta. In seguito sono arrivati il master negli Usa e il tirocinio a Leuven, concluso nel 2014.
Il primo impiego l’ha trovato ad Albenga, dove ha lavorato alla realizzazione di un drone senza pilota per una grossa società italiana: “Era un bel progetto e funzionava – dice Mesolella – abbiamo fatto 200 voli per testarlo, ma poi gli Emirati Arabi, che lo finanziavano, si sono tirati indietro e quindi si è concluso”. In contemporanea alla scadenza del suo primo lavoro, a inizio 2018, Dario riceve una proposta da Berlino. Lo stipendio sarebbe stato raddoppiato a parità di responsabilità e la sede in una capitale europea avrebbe reso paradossalmente più agevole gli spostamenti da e verso casa: “Non volevo andare all’estero – chiarisce Dario – ma ho accettato anche perché avevo voglia di fare un’esperienza lavorativa nell’Aeronautica civile, e in Italia non c’erano grandi opzioni”. A convincerlo però erano anche le prospettive di carriera: “Lo stipendio italiano mi andava bene, anche se negli anni non è mai cresciuto. Mi preoccupava l’immobilità che vedevo all’interno dell’azienda: era una realtà storica, nata agli inizi del 1900, ma anche vecchia nel modo di pensare, poco incentrata sullo sviluppo delle persone”. Quando si è trasferito a Berlino, la realtà professionale gli è sembrata subito diversa: “Sono entrato in un’azienda grande, che mi permetteva di avere rapporti su scala mondiale e nell’arco di poco più di due anni il mio ruolo è cresciuto, e anche lo stipendio”. Non che fosse strapagato rispetto agli standard tedeschi, ma rispetto all’Italia sì: “Tempo dopo essermi trasferito, ho scoperto che per il mio salario iniziale in Germania ero sottopagato rispetto all’esperienza. Il costo della vita era quasi uguale a quello italiano, ma a cambiare per me è stato il potere d’acquisto: avevo disponibilità economiche maggiori, quindi uscivo e viaggiavo di più”.
A Berlino, Dario si occupava dello sviluppo del sistema di controllo dei motori degli aerei civili: “Ci sono un computer, diversi sensori, attuatori e software – spiega – che consentono di convertire tutti i comandi del pilota in azioni automatizzate con lo scopo di migliorare sicurezza e prestazioni del motore in tutte le fasi di volo. Io mi occupavo di questo, di tutte le logiche software e prove per la certificazione”. Malgrado si trovasse in una grande azienda, le condizioni di lavoro erano focalizzate sul benessere del dipendente: “Il mio contratto era di 37 ore settimanali, e c’era flessibilità totale nel recuperarle: se perdevi quattro ore in un giorno, le avresti potute recuperare nell’arco di tutto l’anno. Gli straordinari, poi, erano vietati: c’era il rischio di licenziamento per chi li faceva”. In Germania, come dipendente aveva 30 giorni di ferie e 15 giorni non lavorativi retribuiti da usare in formazioni personali a scelta, di qualunque tipo. La richiesta viene vagliata e approvata dall’autorità locale – nel suo caso, berlinese – e il lavoratore può usare quel tempo per dedicarsi alla sua crescita personale: “L’azienda – spiega Mesolella – può opporsi una sola volta, poi è obbligata a concedere la formazione. Ho colleghi che hanno fatto le cose più disparate: da corsi di surf a corsi di geologia. Io li ho usati insieme alle ferie, per fare dei viaggi in Sudamerica: Brasile, Cile e Patagonia”. Un periodo lunghissimo dal lavoro che però non è stato malvisto dai suoi responsabili. Questo è uno degli atteggiamenti che ha più apprezzato in Germania: “Quando ho presentato la richiesta ferie di quattro settimane, l’hanno approvata senza nemmeno pensarci”. Proprio grazie a quel lungo viaggio Dario ha imparato lo spagnolo, così quando l’azienda ha trasferito la sua divisione a Londra ha deciso di cogliere al balzo l’offerta proveniente da una startup di Madrid, per cui oggi lavora da due anni come ingegnere aerospaziale di sistema.
Il progetto, al cui sviluppo collabora anche un’azienda italiana, si chiama Skydweller e lavora a un velivolo a impatto zero e volo autonomo: “Può volare senza benzina e senza batterie, ha dei pannelli solari e un’apertura alare di 80 metri – spiega Mesolella – quindi ha le dimensioni di un aereo. Si ricarica col sole, quindi potenzialmente può volare per mesi senza fermarsi. Si può usare per telecomunicazioni o monitoraggi satellitari ma possono essere diverse le applicazioni”. L’aereo ecosostenibile ha permesso alla startup di passare da 30 a 150 dipendenti in due anni oltre che di ricevere le attenzioni di tutto il mondo: “Ho visto proprio la crescita della startup – spiega – ma quello che faccio qui l’ho imparato in gran parte nella mia esperienza lavorativa ad Albenga e questa azienda potrebbe esistere tranquillamente anche in Italia”. Eppure, in Italia questo settore è ancorato a pochi colossi, concentrati soprattutto al Nord e governati da dinamiche d’altri tempi: “Mi sono trasferito a Madrid soprattutto per il progetto, ma anche perché l’azienda era fresca e ha investito su di me fin dalle fasi iniziali. Alcune cose sono più faticose, perché in una piccola realtà devi fare un po’ di tutto ma in compenso non ci si annoia e c’è un rapporto diretto con i capi”. Se potesse, in realtà, Dario tornerebbe domani: “Ho tanti amici a Madrid, ma quelli veri rimangono in Italia e posso sentirli solo su Whatsapp e Telegram”. Come a molti, gli manca la famiglia e sarebbe disposto perfino a perdere qualcosa pur di tornare da dove ha iniziato: “Mi accontenterei anche di uno stipendio più basso, ma vorrei lavorare in Italia, per un’azienda che punti sulla sostenibilità e che sia snella nel modo in cui si rapporta con i dipendenti”.