Ho votato per la prima volta alle elezioni politiche del 2008. Si tenevano il 13-14 aprile e io avevo compiuto 18 anni da un paio di mesi. Votai un partito che prese meno dell’1% e che di lì a poco si sarebbe sciolto. Tornai ai seggi nel 2013 con poca convinzione; nel 2018 ero già disperato. In mezzo, tre elezioni europee (2009, 2014 e 2019) in cui, almeno, potei scegliere il candidato; e tre regionali (in Lombardia: 2010, il voto anticipato nel 2013 e 2018). Bene: per la prima volta da 14 anni a questa parte non voterò alcun partito. La mia indecisione, al momento, oscilla tra il rinfoltire il già nutrito schieramento di astenuti o quello, minoritario, di chi ritirerà la scheda per disegnare falli (o vulve).
L’offerta politica è desolante. Più del solito. Anzi, riformulo: l’offerta politica non è mai stata tanto desolante quanto in questa tornata elettorale. Ho la sensazione – ma mi posso sbagliare – che dal 2018 (almeno dal 2018) sia diventato tutto imprevedibile e, allo stesso tempo, terribilmente indifferenziato. I valori in campo sono stati svuotati di significato, la parola data non ha più alcun peso, le promesse fatte sono solo parole buone per riempire i giornali. I partiti, e chi li manovra, si rincorrono, si accavallano, si mischiano e si fondono in un girotondo insensato alla fine del quale emergono sempre uguali a se stessi. Direi: uguali e, per questo, peggiori. Fuori dai palazzi le persone hanno bisogno, più che mai, di risposte; ma la politica è impegnata nella spartizione di pezzetti, più o meno prestigiosi, di potere: le poltrone. Nessuno è più credibile. E anche i programmi, semmai valga la pena leggerli, non contano più nulla.
Una buona fetta di parenti, amiche e amici, mi hanno detto che loro, per l’ennesima volta, voteranno “turandosi il naso”; e mi hanno suggerito, o intimato – il grado di veemenza con il quale si accompagnava il consiglio era direttamente proporzionale alla quantità di alcol assunta durante la conversazione – di fare altrettanto. Che poi quell’espressione, “turarsi il naso”, si porta dietro già di per sé tutto il suo carico di tragico anacronismo. Una formula usata da Indro Montanelli 46 anni fa, quando il giornalista invitò a votare Dc per fermare l’avanzata del più forte Partito comunista dell’Occidente. Lo ripeto, perché forse il dato temporale si è perso: 46 anni fa.
Successivamente la frase è stata ripetuta a ogni elezione. E lo si è fatto più spesso, provo a indovinare, negli ultimi 30 anni. Ebbene, 46 anni dopo siamo ancora qui a ripeterla. Significa che la politica non riesce a offrire niente di meglio che la presunta minaccia di un presunto sovvertimento delle regole democratiche. Cinquant’anni fa erano i comunisti, ora sono quelli di “destra-destra”. E si tira in ballo la Costituzione, che rischia di essere modificata, il presidenzialismo e via così. La Costituzione, i cui principi fondanti vengono calpestati ogni giorno da scelte politiche che producono crescita delle disuguaglianze, ingiustizie economiche e sociali e la progressiva, costante aggressione alla salute dell’ambiente. E allora mi chiedo: che senso ha l’appello al voto utile, al voto “in difesa della Costituzione”? Nessuno.
Mentre scrivo, manca un mese alle elezioni. L’idea di astenermi – o di annullare la scheda – mi permetterà di dire: “Io non li ho votati”. Una prospettiva di onesta e confortante pusillanimità.