Spiagge piene, stadi vuoti. Mentre in tutta Europa i campionati ripartono con l’entusiasmo dei tifosi e il pienone negli impianti, in Italia la Serie A è ricominciata nella solita cornice di strutture scalcagnate e ampi spazi liberi nelle tribune: nel corso della prima giornata solo il 73% dei posti è stato occupato, percentuale lontanissima dalla Premier League degli stadi moderni e gremiti, o della Bundesliga, che viaggiano costantemente vicine al tutto esaurito, ma dietro anche alla Spagna e persino alla Francia. Siamo sempre più fanalino d’Europa, periferia del mondo nel pallone, per infrastrutture e non solo.
A riportarlo è la ricerca di un portale specializzato, Sportingpedia, che ha messo confronto i dati sulle presenze degli stadi nel corso della prima giornata dei migliori cinque campionati europei. Dallo studio emergono dati che confermano la supremazia, ad ogni livello, del calcio inglese: nel Regno Unito, ad esempio, al debutto stagionale sono rimasti disponibili appena l’1,5% di tutti i biglietti di tutto il campionato, a dimostrazione di quanto siano richieste le gare di Premier. Discorso simile in Germania, con il 95% di “attendance” negli stadi, dove sono stati raggiunti gli unici quattro “sold out” di giornata (a Dortmund, Francoforte, Colonia e Berlino). Il divario con la Francia, terza a quota 79%, è piuttosto netto, a stretto giro segue la Spagna (77%), mentre l’Italia come detto è ormai staccata. Per altro, ad alzare la media della Serie A ci hanno pensato i risultati di Milan e Juventus, che insieme a Inter e Roma (che giocavano fuori casa alla prima) sono le uniche squadre ad avere un’affluenza massiccia. Il resto del campionato viaggia a livelli molto più bassi.
Questi dati dovrebbero portare a chiedersi perché ormai gli stadi italiani siano i più vuoti (o meno pieni, a seconda di come vogliamo vedere il bicchiere) d’Europa. La prima risposta è la più ovvia: la colpa è degli stadi stessi, vecchi, a volte proprio fatiscenti, quasi sempre inospitali, e dunque poco attrattivi per i tifosi che preferiscono magari guardare la partita comodamente seduti sul divano (o non guardarle proprio). Non può essere un caso, ad esempio, che gli impianti con le migliori performance siano San Siro a Milano, che nonostante sia ormai prossimo alla rottamazione per volere dei club resta ancora oggi un’eccellenza del nostro Paese, e poi lo Juventus Stadium, uno dei pochi impianti di proprietà, moderno e all’altezza degli standard internazionali (che però sconta il limite delle sue dimensioni davvero troppo ridotte per un top club). Un’altra conferma, guardando all’estero, viene dal fatto che la Francia, che grazie agli Europei 2016 si è dotata di un’impiantistica diffusa all’avanguardia, sia davanti alla Spagna nonostante un campionato di gran lunga più scarso della Liga.
Ovviamente non è tutto qui. Tanti fattori possono incidere: l’entusiasmo intorno a un progetto, come dimostra il dato della Salernitana reduce dalla miracolosa salvezza dello scorso anno (30mila spettatori e 87% di capienza), oppure i 60mila dell’Olimpico per Roma-Cremonese (alla seconda giornata, fuori dal report in questione). E ancora, la cultura sportiva di una città, senza considerare poi variabili più estemporanee come data, orario e giorno del match (l’inizio a Ferragosto sicuramente non aiuta l’Italia, che ha un esodo estivo più pronunciato rispetto ad altri Paesi come Inghilterra o Germania). In generale, però, è la bassa qualità del “prodotto” Serie A ad allontanare il tifoso italiano dagli stadi, specie nelle piazze più piccole. In media, una partita qualsiasi di Premier sarà sempre più divertente e confortevole da seguire in tribuna rispetto a una di Serie A. E il risultato si vede. Stadi meno pieni significa meno ricavi da botteghino e da merchandising, partite anche meno belle da mostrare in tv, quindi diritti televisivi svalutati, di conseguenza poche risorse da investire nelle squadre e nelle infrastrutture, dunque spettacolo mediocre, infine meno tifosi, e ritornando al punto di partenza stadi ancora più vuoti. Come un cane che si morde la coda, un circolo vizioso che si autoalimenta e da cui il calcio italiano non riesce ad uscire.