Il segreto della felicità? Avere un cane. Lo sanno bene i venti milioni di italiani che ne posseggono uno. Oppure correre. Come trenta milioni di connazionali – il vero “partito di maggioranza” del Paese – sperimentano ogni volta che escono per fare jogging o running. Del resto all’esperienza si aggiungono sempre più le conferme della scienza, che attesta come dalla relazione degli umani con i cani scaturisca un sensibile abbassamento di frequenza cardiaca, pressione sanguigna e stress. In questo modo, sia cane che padrone, in virtù di un sistema di feedback neurochimico, psicologico e comportamentale, possono rilasciare ossitocina, oppoidi, adrenalina e serotonina: ormoni e sostanze in grado di farci sentire più gioiosi e realizzati, e anche di migliorare la nostra vita sociale e il rapporto con gli altri. Ne consegue che avere un cane con cui correre… beh, quello è proprio il massimo della vita.
Lo racconta mirabilmente Mark T. James nel suo “La gioia di correre in salita”, che esce ora in Italia per Libreria Pienogiorno, e quindi in tutta Europa. Definito dalla critica “una storia di contagiosa felicità che testimonia il potere salvifico dei cani e della corsa”, il libro racconta l’esperienza dell’autore, giovane broker della City londinese con un’esistenza apparentemente tutta in discesa e che tuttavia gli toglie il fiato. Sprofondato in una crisi di senso, Mark ne riemerge dapprima prendendosi una pausa e raggiungendo un amico in Italia, nelle Langhe piemontesi, terra di tutto ciò che non ricorda più: piccoli borghi, ritmi lenti, grandi vini, colline impervie e luminose, un paesaggio che invita a guardarsi dentro. E poi, soprattutto, facendosi travolgere l’esistenza da Black, un meraviglioso e scatenato labrador nero che Mark accoglie in un primo momento con riluttanza. Trascinato da Black in corse tra i vigneti e in affannosi saliscendi per inseguirlo, poco alla volta Mark ritrova il fiato, conosce persone nuove, comincia a capire che correre gli fa bene alla vita. Che alla fatica della salita corrisponde una gioia mai provata prima. E che Black, da impegno dovuto, è diventato ogni giorno di più la luce delle sue giornate. Mark T. James e Black hanno firmato insieme la loro guida attraverso i sentieri della felicità. Diventerà un classico del genere.
Per gentile concessione, pubblichiamo in esclusiva un brano di anticipazione di “La gioia di correre in salita“, di Mark T. James.
Io ero già con Black sul sentiero, poi tra gli alberi, Black mi precedeva baldanzoso. «Sì, però non si corre. Non voglio mica morire. Camminiamo», e lui smise di trotterellare e si mise al passo.
Per un po’ camminammo. Ma c’era tensione nell’aria, la sentivo, c’era tensione tra noi due, io camminavo ma Black si girava in continuazione a guardarmi come a dirmi: dai, corriamo. «No, Black», le gambe mi facevano ancora male, non se ne parlava di massacrarmi con un’altra corsa, «no, si fa una bella passeggiata. Tranquilli». Camminavo e intanto i pensieri si accavallavano, Black invece correva e se aveva dei pensieri dovevano essere allegri.
Faceva una corsetta in avanti, poi si fermava e si voltava per vedere se mi ero messo a correre anch’io. Continuavo a camminare tranquillo. Non voglio stancarmi come ieri, mi ripetevo. Lui riprese a correre. Poi si fermò e mi guardò. Riprese ancora una volta, si fermò di nuovo, mi guardò. Il giochino andò avanti, lui che scattava, io che lo frenavo. Lui che voleva galoppare via, io che gli imponevo di stare nello schema di una placida passeggiata. Come se il mio camminare volesse dire comportarsi da persone per bene, e il suo correre fosse invece selvaggia e scalmanata ribellione. Io il camminatore benpensante, lui il corridore anarchico. Io bloccato in un mondo programmato e lui libero di scorrazzare nella natura. E mentre lo guardavo e sentivo stridere questa differenza tra il correre di Black e il mio camminare, mi rividi mentre con un gesto rapido e deciso infilavo in un cestino dei rifiuti il mio futuro tutto stabilito, e mi resi conto che era proprio quel mondo che avevo voluto buttare via.
«Black…», chiamai, ma lui questa volta non si fermò, non si girò, continuò a correre.
Guardandolo mi prese un’inquietudine, un’agitazione, una smodata voglia di correre anch’io. Di non lasciare le cose a metà, come mi diceva sempre il bisnonno, ma di andare fino in fondo, di passare del tutto dalla parte di Black. Volevo anch’io quella leggerezza che vedevo in lui. Volevo scorrazzare nella natura, scrollarmi di dosso la lentezza e il mio muovermi con fatica. Così, senza rendermene conto, un passo dopo l’altro, cercai di tenere il suo ritmo, accelerai sempre di più e infine spiccai la corsa. Le gambe mi dolevano, ma non mi importava. Quel dolore mi ricordava che avevo le ginocchia e le gambe, che avevo dei piedi che si posavano ormai con un ritmo cadenzato sul terreno, e mi accorsi di sorridere.
Stavo riscoprendo il mio corpo vivo in ogni fibra, un corpo che avevo vissuto come morto e adesso, percorso dal brivido della fatica, stava finalmente respirando per dirmi: sono qui!
Che esperienza inimmaginabile: correvo e correvo, ora con Black poco davanti, ora al mio fianco, correvo con tutto il corpo, il respiro mi martellava disordinatamente i polmoni e il cuore mi saltava in gola, correvo con l’aria sulla faccia e il sudore giù per la schiena, i profumi del verde nel naso, in bocca. Il bosco si muoveva intorno a me, i prati mi balzavano incontro fitti, lo sterrato saliva e scendeva e, quando saliva, la fatica era ancora più avventurosa, più cruda, più vera. Avanti e avanti. E mentre correvo la mente mi si sgomberò di ogni pensiero, tutto divenne lieve, aereo, trasparente. Avanti e avanti. Questo corpo non l’avevo mai sentito così gioioso, neppure quando facevo l’amore, che dovrebbe essere il massimo. Ero diventato vento, terra, alberi, colline ondulate. Correvo.
Fino a quando crollai.
Crollai nell’erba folta lungo e disteso, ridendo e ansimando. Forse non sarei riuscito ad alzarmi mai più, a far entrare aria nei polmoni: la tiravo dentro a bocca spalancata, ma sembrava non bastare. Respiravo con una specie di rantolo, forse stavo per morire, ma Black era con me, eravamo vicini, affannati, giravo la testa e vedevo i suoi occhi miti, la sua lingua penzoloni, scodinzolava e pareva dire: «Caspita, che corsa!»
Disteso nell’erba sentivo il respiro e il battito dei cuori, il mio e quello di Black, un cane che mi era capitato e del quale forse ora non sarei più riuscito a fare a meno. Non era mio, ma era il mio compagno, in quello che avrebbe potuto essere l’inizio della mia nuova vita.
Allungai la mano e gliela posai sulla schiena. Pelo corto, fitto e ruvido e caldo. Sentivo il suo respiro farsi calmo e profondo sotto la mia mano aperta. Era rassicurante. Rimanemmo così, a riposarci insieme. Intanto ascoltavamo gli uccelli cantare e poi arrivò il rumore di un trattore lontano.
Riuscii infine ad alzarmi e a ripercorrere tutto il sentiero per tornare a casa. In condizioni deplorevoli. Mi sentivo come se mi avessero picchiato. Mi sfilai la camicia fradicia scollandomela di dosso, me la buttai su una spalla, procedevo a passi ineguali e sgangherati, ma procedevo. Con fatica.
Però – e tirai un respiro di quelli che ti arrivano fino in fondo all’anima – però che esperienza riuscire a correre.