Le chiamano “bombe di anidride carbonica”. Sono i progetti di estrazione di combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) che, se realizzati, possono generare almeno un miliardo di tonnellate di Co2, il triplo delle emissioni annuali di un paese come la Gran Bretagna. L’Agenzia internazionale per l’energia, entità non particolarmente ostile all’industria petrolifera, ha avvisato qualche mese fa che, per sperare di raggiungere gli obiettivi di contenimento dell’aumento delle temperature previsti dagli accordi di Parigi, sarebbe necessario azzerare da subito qualsiasi investimento in fonti fossili. Nessuno sembra ascoltare questo appello accorato. Anzi, le “bombe al carbonio” raccolgono finanziamenti miliardari. Quaranta di questi “progetti killer” per qualsiasi velleità di riduzione delle emissioni si trovano in Russia e 19 sono massicciamente finanziati da istituzioni occidentali con erogazione di crediti avvenute anche nel 2022. Ad operare sul campo sono sono le solite controllate di Mosca Gazprom, Novatek, Lukoil e Rosneft ma i soldi arrivano da mezzo mondo. I dati sono contenuti nel rapporto della ong Lingo, ripresi dal quotidiano britannico The Guardian.
I ricercatori spiegano che alcune delle istituzioni finanziarie indicate potrebbero aver ridotto il loro sostegno alle società russe dopo l’inizio della guerra ma che molti sembrano aver adottato un approccio attendista. In tutto i finanziatori esteri sono 400 ed hanno erogato crediti per 84 miliardi di dollari e investimenti diretti nei progetti per 52 miliardi. In cima alla classifica dei finanziatori ci sono molti gruppi di Stati Uniti e Gran Bretagna, i due paesi che hanno già varato le restrizioni più severe sull’import di idrocarburi russi. Il fondo statunitense Capital ha ad esempio investito nel 2022, 1,9 miliardi di dollari in un progetto di Gazprom. C’è poi Invesco, con una quota da 1,8 miliardi nelle esplorazioni di Novatek, Vanguard che partecipa con 1,4 miliardi ai progetti di Gazprom, con 1,1 miliardi a quelli di Lukoil e con 749 milioni a quelli di Novatek. E ancora Blackrock, il cui amministratore delegato Larry Fink ha annunciato ai quattro venti la “svolta green” della società, che è però investita nei progetti di Lukoil per 1 miliardo e in quelli di Gazprom per 1,1 miliardi.
Spunta anche il fondo dei pensionati della Norvegia, paese impegnato in una transizione verde ma che sta incassando cifre record grazie al gas che vende: 100 miliardi di euro nel 2022, ossia 18mila a testa per i 5,4 milioni di abitanti. Nel 2021 il fondo dei pensionati ha investito quasi un miliardo di dollari in un progetto di Gazprom. “Piccole” quote per la banca statunitense Jp Morgan (304 milioni in Gazprom) e per le britanniche Schroders (348 milioni in Novatek) ed Hsbc. Quest’ultima ha affermato di avere ridotto le sue esposizioni sulla Russia. In assoluto l’investimento più consistente è quello del fondo sovrano del Qatar: ben 15 miliardi di dollari in un progetto esplorativo di Gazprom. Cifre più modeste ma anche l’Italia ci mette del suo, in tutto sono 15 i soggetti investiti o finanziatori delle “bombe al carbonio” russe per un totale di 164 milioni di euro. Il conto italiano sale però significativamente se si guarda ai crediti erogati che superano i 17 miliardi di dollari. In vetta c’è Intesa Sanpaolo (9,1 miliardi di dollari), poi Unicredit (4,5 miliardi) e Cassa depositi e prestiti, controllata all’80% dal ministero del Tesoro, che ha erogato prestiti per 3,8 miliardi.