Nell’agosto del 1999, una serie di misteriosi attentati provoca la morte di 293 persone a Mosca e in provincia. Vladimir Putin, che era stato nominato da poco primo ministro dopo essere diventato capo dell’intelligence russa (Fsb), e che sta brigando per succedere a Boris Eltsin, il presidente sempre più inaffidabile e contestato, chiede l’appoggio degli amici oligarchi che controllano i media e denuncia violentemente in tv la responsabilità cecena, promettendo di stanare e uccidere i terroristi ovunque si nascondano, “anche nei cessi”. Alle veementi promesse, segue la guerra.

A settembre, infatti, l’esercito russo invade la Cecenia, attacca con violenza inaudita gli indipendentisti ceceni. Lo scaltro Putin ha l’appoggio dell’opinione pubblica, ben manipolata: si è ritagliato la reputazione di uomo forte, determinato, implacabile. Diventa il conquistatore del Caucaso, la sua popolarità è alle stelle: nulla può ormai fermarlo, ha saputo trarre profitto dall’ondata nazionalista, ha risposto al desiderio di vendetta nazionale.

Va oltre la crisi cecena per “cristallizzare le frustrazioni e le delusioni accumulate dalla fine della caduta dell’Impero sovietico”, scrive Vladimir Fedorovski nel suo ultimo saggio Poutine. L’Ukraine. Les faces cachées, edito da Balland pochi mesi fa. Fedorovski è stato un diplomatico influente sotto Gorbaciov, diventando il portavoce della perestroijka. Ha vissuto gli anni convulsi di Eltsin e l’inizio arrembante di Putin. I suoi libri sono diventati best seller internazionali. Madre russa, padre ucraino, Fedorovski si sforza di decifrare le trame di Putin, quelle che hanno portato alla sua ascesa e quelle che stanno dietro gli avvenimenti tragici di questi sei mesi esatti di conflitto tra Ucraina, il Paese invaso, e la Russia, il Paese invasore.

Perché ricordare gli attentati del 1999? Perché si sospettò, fin dall’inizio, della loro reale matrice. Anna Politkovskaja e altri giornalisti investigativi trovarono parecchie incongruenze nelle versioni ufficiali. Il 26 marzo 2000 Putin diventa presidente al primo turno dello scrutinio. Ha le idee chiare: il progetto nazionale che ha in mente si basa su concetti – diciamo così – fluidi ma efficaci, poiché toccano l’immaginario collettivo russo: la nostalgia dell’Urss, la religione ortodossa, l’imperialismo, il culto della personalità, la concezione eurasiatica propugnata dal filosofo Alexander Dugin, rimettere in piedi un Paese dopo il caos degli anni eltsiniani. Soprattutto instaurare uno Stato forte, ponendo fine al banditismo decentralizzato e ritornando ad una amministrazione centralizzata tenuta da un pugno di ferro. In questa visione, l’Ucraina è la pecorella smarrita da riportare all’ovile. Costi quel che costi.

Così, per analogia, arriviamo alla misteriosa esplosione di sabato sera 20 agosto 2022, quando un ordigno (400 grammi di tritolo) messo sotto il sedile del guidatore disintegra la Toyota Land Cruiser guidata da Darya Dugina, quasi trent’anni. La figlia di Alexander Dugin. L’attentato ha una portata simbolica molto forte. Il nome di Darya, infatti, è indissolubile da quello del padre e del pensiero russo contemporaneo antioccidentale. Darya ha perorato il massacro degli ucraini in nome dell’Eurasia, il grande disegno imperiale vagheggiato da Alexander e portato avanti da Putin. E’ sempre stata in prima fila nel sostegno ideologico di questa guerra. E’ andata a Mariupol, appena dopo la resa del reggimento Azov. Ha negato le stragi di Bucha, “manipolazioni e recite”. La Gran Bretagna l’ha messa nella lista nera per il suo ruolo nella “disinformazione sull’Ucraina”. Gli Stati Uniti l’hanno fatto a marzo.

Lei e Alexander si erano dunque recati al festival identitario “Tradizione” che era in corso in uno dei quartieri della immensa periferia moscovita, ospiti d’onore della manifestazione. Poco prima di mezzanotte, i Dugin lasciano la festa. La figlia monta sulla sua Toyota, rimasta in un parcheggio dove stranamente da due settimane le videocamere di sorveglianza erano fuori uso. Il padre, invece, sale sulla vettura di un amico, col quale doveva discutere di lavoro. Il tempo di percorrere poche centinaia di metri e l’auto della Dugina salta per aria. La polizia di Mosca è certa che ad innescare l’ordigno esplosivo sarebbe stato da remoto un telefonino, proprio come nei film di 007. Azionato da un agente nemico infiltrato nel nostro territorio. Che doveva essere nei paraggi, a controllare i movimenti dei Dugin. Opportunamente, senza essere immortalato dalle telecamere…

Prima domanda, senza risposta: l’obiettivo era Darya? O il padre? Anzi, tutti e due insieme?

Trascorrono 24 ore e l’Fsb, i servizi di sicurezza russi, annunciano a tempo di record che hanno identificato il colpevole. Anzi, le colpevoli: Natalya Vovk, 43 anni, ucraina, e sua figlia dodicenne. Come prova, viene diffusa la foto della donna mentre è al volante di una Mini, al valico di frontiera con l’Estonia. Era entrata in Russia il 23 luglio, col nome di Natalya Shaban. Peccato che dal 2016 lei abbia divorziato dal marito e non usi più quel cognome…

L’auto, secondo la versione rilanciata dalle agenzie russe, era dotata di tre targhe che venivano usate a rotazione: una della repubblica di Donetsk, la seconda ucraina e la terza del Kazakistan. A dimostrare che la Vovk ha un ruolo militare, si esibisce una sua tessera di appartenenza all’unità militare 3057, la Guardia nazionale ucraina in cui è inquadrato il reggimento Azov. Da Kiev smentiscono: “E’ falsa”. Ma il sassolino è gettato nello stagno dell’opinione pubblica russa indignata e incollerita. I dettagli dell’inchiesta Fsb sono stupefacenti: ci si domanda allora perché nessuno abbia arrestato prima la Vovk che aveva addirittura trovato alloggio nello stesso condominio in cui abitava la Dugin – particolare degno di un romanzo di John Le Carré. Ovvio che tutto ciò ha uno scopo ben preciso: consolidare la tesi del complotto articolato e luciferino (pensiamo al coinvolgimento della figlia dodicenne) della spia terrorista ucraina.

Il problema è che questa narrazione è stata servita in modo cialtronesco. Se affermi che la Vovk figura negli schedari dell’Fsb dal 2016, segnalata quale “appartenente a gruppi militari ucraini” e ne conoscevi anche il cognome da maritata, perché l’hai lasciata entrare in Russia, sapendo della sua pericolosità, quindi da dover essere sempre tenuta d’occhio? Non parliamo poi della Mini: la stessa auto è apparsa in un sito di compravendite all’inizio di agosto, assicurata in Crimea da tale Yulia Zezera di Kaliningrad (l’exclave russa tra Lituania e Polonia, affacciata sul Baltico, notorio nido di spioni).

Nel frattempo da Kiev si fa vivo l’ex deputato della Duma, il controverso oppositore Ilya Ponomarev (in politica dal 2002, fondò il Fronte della Sinistra, ha sostenuto la legge liberticida su Internet di Yelena Mizulina, la madre è nel Consiglio della Federazione russa, il padre nel cda di una società controllata dall’oligarca Konstatin Malofeev: per Alexei Navalny è un “truffatore” per via della gestione della fondazione Skolkovo). Annuncia che l’attentato di Mosca è opera di un fantomatico gruppo, l’Esercito nazionale repubblicano. Gli hanno mandato le foto, diverse da quelle apparse nei giornali. Secondo lui, “il bersaglio era legittimo, la Dugina non è la sfortunata figlia che ha pagato il prezzo per suo padre: era il suo tenente, la sua mano destra. “Per quanto ne so, l’idea originale era far saltare entrambi in aria”. Lo confida al sito Meduza, una lunga intervista che non chiarisce ma confonde. Kiev si dice totalmente estranea.

La sparata di Ponomarev è un oggettivo assist per i russi. Siamo nelle paludi della disinformacija. La guerra dell’informazione non è nuova. Negli anni Settanta, il Kgb diretto da Yuri Andropov aveva perfezionato l’arte della disinformazione con campagne che seminavano zizzania, approfittando della credulità delle opinioni occidentali. Lo sviluppo di Internet ha permesso di riprendere questi metodi su una scala senza precedenti. Tramite Facebook e gli altri social network, la Russia in guerra con l’Ucraina, disinforma, trasforma senza vergogna i fatti, seminando sospetti e dubbi. Per questo, gli indizi vengono presentati come prove quasi tombali. Per questo, si è subito configurato l’attentato dando volto e soprattutto nazionalità al colpevole. Ineluttabile conseguenza, martedì 23 agosto, la randellata di Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo e gran sodale di Putin: “Nessuna pietà per gli organizzatori, i mandanti, gli esecutori dell’assassinio”.

In questo scenario fortemente politicizzato, il funerale di Darya Dugina celebrato martedì 23 agosto è diventato il teatro del j’accuse contro Kiev. Ampiamente coperto dai media, ha avuto per protagonista l’affranto padre, l’aria da ingiusto e fortunato sopravvissuto, ma anche da predestinato profeta della grandezza imperiale russa. Impersonificando il dolore di tutti i russi, ha sottolineato la fatalità della sorte di Darya: “E’ morta al fronte per il popolo; è morta per la nazione; è morta per la Russia. Il fronte è qui”. E ancora: “Tra le prime parole che le abbiamo insegnato da bambina, c’erano ineluttabilmente ‘Russia’, ‘nostra potenza’, ‘nostro popolo’, nostro impero’”. Scintille dialettiche per appiccare il fuoco della rivalsa e invocare una reazione pesante, definitiva: “E’ stato un atto di terrorismo del regime ucraino”, ha dichiarato Dugin, con la certezza di chi pretende d’essere nel giusto; la fatalità è nell’anima russa, la morte è compagna di cammino, il nemico è quello indicato dal giudizio della Storia. La Storia secondo Mosca. E Putin. Il pretesto è scodellato. L’alibi per una ritorsione in grande scala è stato allestito. Ad onor del vero, maldestramente.

E tuttavia, il timore di Kiev è fondato sui precedenti. Appunto, sul passato opaco, come nell’agosto del 1999, come per tanti altri misteri: i mandanti dell’uccisione di Boris Nemtsov, di Anna Politkovskaja, che aveva messo seri dubbi sugli attentati attribuiti ai ceceni e documentato le violenze dei militari russi in Cecenia e viene ammazzata nel giorno del compleanno di Putin, il 7 ottobre 2006… Ecco, la grande paura ucraina è che vengano orchestrati altri attentati terroristici nelle città russe per influenzare la gente e sostenere la guerra in Ucraina. “Temiamo che nel giorno in cui festeggiamo la nostra indipendenza dalla Russia, Mosca possa fare qualcosa di particolarmente ributtante”, ha detto il presidente Zelensky. Quel giorno è il 24 agosto.

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