Ironia della sorte. Hai rischiato la vita così tante volte. Aerei sperimentali da collaudare. Più di 200. Ti hanno abbattuto con l’inganno nel cielo della Corea. Hai fatto un passo, piccolo per te, ma gigantesco per il genere umano e lasciato le tue impronte sulla luna. Per poi morire in un letto d’ospedale perché il medico di turno ha deciso di operarti al cuore d’urgenza, quando urgenza non c’era. L’intervento di by-pass era andato bene, ma qualche giorno più tardi, quando ti stavi riprendendo, un’infermiera ti ha sfilato male i cavi del pace-maker esterno provocandoti un’emorragia. I medici hanno fatto altri errori, l’hanno trattata male, generando complicanze che ti hanno ucciso il 25 agosto 2012.
Neil Armstrong, sono passati dieci anni. Riposa in pace. Eri un uomo come tanti. Ti sei divertito molto nei tuoi anni d’università. Hai quasi rischiato di farti buttare fuori visto che preferivi comporre parodie musicali per la tua Fraternity Phi Delta, piuttosto che studiare per gli esami. L’università te l’ha pagata l’Holloway Plan: due anni di studio, poi due anni di scuola di volo, un anno di servizio come pilota della marina Usa e poi, se si era ancora vivi, altri due anni di studio. Hai imparato ad appontare su una portaerei senza finire in mare. Ti hanno mandato in Corea. C’era la guerra e i coreani giocavano sporco. Cavi tesi attraverso le valli. Volavi basso. Ti sei giocato due metri di un’ala. Te la sei cavata. Sei tornato dopo 78 missioni e una manciata di medaglie. Nel gennaio 1955 hai completato il primo ciclo di studi e sei diventato ingegnere aeronautico.
Neil Armstrong, ingegnere di mestiere, pilota per passione, non per nulla il primo volo lo hai fatto a sei anni e hai preso il brevetto a 16. Sei andato a lavorare per la Nasa, agenzia costituita da Dwight D. Eisenhower il 29 luglio 1958, operativa dal 1° ottobre 1958, per sopravvivere al più grande dolore che si possa provare. Neil, aveva appena due anni Karen, la tua bimba, quando è morta. Era con te sulla luna. No, non eri un uomo come tanti. Eri un uomo cui la vita aveva lasciato cicatrici permanenti, che obbligano a cambiare la prospettiva delle cose, dei valori, la percezione di se stessi. Motivi politici ti hanno nominato comandante della missione Apollo 11 e il primo uomo a camminare sulla luna. Scelto perché eri un civile e quindi rappresentavi al meglio il mito americano: competenza, controllo, coraggio, ingenuità, fortuna, esagerazione, fiducia nelle istituzioni, nel suo presidente.
Chissà se gli hai rivolto un pensiero quando hai trasmesso: “Houston qui base Tranquillità, l’aquila è al suolo”. Forse lo hai fatto prima di saltare da quell’ultimo piolo sul suolo lunare. Non sareste stati lì, tu e Aldrin, se il presidente Kennedy, il 25 maggio 1961, non avesse condiviso con i membri del Congresso la sua visione: “In primo luogo, credo che questa nazione dovrebbe impegnarsi a raggiungere l’obiettivo, prima che questo decennio finisca, di far atterrare un uomo sulla luna e riportarlo sano e salvo sulla Terra. Nessun singolo progetto spaziale in questo periodo sarà più impressionante per l’umanità o più importante per l’esplorazione dello spazio a lungo raggio; e nessuno sarà così difficile o costoso da realizzare”.
Visione dettata dalla competizione con l’Unione sovietica. Allo smacco del bip-bip dello Sputnik la risposta era stata la costituzione della Nasa. Yuri Gagarin ha generato la visione di Kennedy. L’uomo sulla luna. Obiettivo pazzesco. Impossibile. Audace. Affascinante. Il guanto di sfida per vincere la corsa allo spazio era stato lanciato. Gli americani, tutti, sapevano che dovevano battere i sovietici. Il blocco sovietico preoccupava. Test di bombe atomiche e all’idrogeno. Crisi dei missili di Cuba. Il terrore del comunismo aveva generato il maccartismo che aveva avvelenato la società statunitense. Per trasformare la visione in realtà serviva una nuova infrastruttura tecnica, educativa e industriale. Le passeggiate di Armstrong e di Edwin “Buzz” Aldrin, brevi perché nessuno era tranquillo su quanto avrebbero potuto resistere gli scafandri spaziali all’ambiente lunare, furono in grado di dissipare i fantasmi che stavano trasformando il sogno americano in un incubo: le passioni violente del movimento per i diritti civili, l’uccisione di Martin Luther King Jr., la guerra del Vietnam, l’assassinio di John e poi di Robert Kennedy, le proteste del 1968.
La sera del 20 luglio 1969 le parole di Armstrong “Un passo piccolo per un uomo, gigantesco per l’umanità” alimentarono una nuova fiducia, rivitalizzarono il mito americano. Fu una discontinuità epocale, intuita più che compresa, dagli oltre 530 milioni di telespettatori che seguirono la diretta, ovunque nel mondo. Non per nulla ognuno di essi si ricorderà per il resto della vita dove fossero quella sera. Con chi. Cosa provarono. Io sono uno di loro. Voi?
Un piccolo passo reso possibile da centinaia di migliaia di tecnici, scienziati, maestranze che hanno creduto nel sogno proposto. Reso possibile da un popolo, quello americano, che credeva nelle sue istituzioni al punto di sostenere un programma decennale, senza ripensamenti. Oggi non più. Non ci credono più. L’inizio del declino forse è da fare coincidere con l’affare Watergate che portò alle dimissioni del presidente Nixon. Lo stesso che telefonò dalla Terra alla luna per congratularsi con Armstrong, che andò ad accogliere, a bordo della portaerei Hornet, i tre astronauti. A dire il vero li salutò dall’oblò del modulo per la quarantena. C’era anche Michael Collins, rimasto in orbita intorno alla luna ad aspettare il ritorno del modulo lunare, per tornare sulla Terra 8 giorni, tre ore, 18 minuti e 35 secondi dalla partenza.
Come ha reagito Collins quando gli avete detto che eravate riusciti ad attivare i propulsori del Lem grazie a una penna biro, dopo che vi si era rotto il pulsante di accensione? In quei 21 giorni di quarantena avete realizzato che avevate solo il 50 per cento di probabilità di farcela? All’epoca dissero che la missione Apollo 11, di cui eri comandante, salvò lo spirito dell’America, che oggi non gode proprio di buona salute. Non che da noi le cose vadano molto meglio. Caro Armstrong, non hai idea di quanto mi dispiaccia che tu abbia dovuto subire l’ingiuria delle strampalate e inutili teorie cospirative che dalla fine dello scorso secolo sostengono non si sia mai stati sulla luna. La tua discrezione, la forza con cui hai protetto, una volta lasciata la Nasa, la tua vita privata e i tuoi ricordi, la tua volontà di continuare a essere quello che eri prima di diventare leggenda, hanno dettato la tua scelta di non rispondere. Superiorità dell’intelligenza del sapere nei confronti dell’imbecillità del pretendere.
Hanno anche dettato la tua scelta di fare il professore universitario. Nulla di più bello del condividere le proprie conoscenze ed esperienze. Altri tuoi colleghi si sono dati alla politica. Hanno calcato le scene, cercato fama e onori. Tu no. Però quando insegnavi, quando partecipavi a conferenze, quando parlavi, ci si sporgeva in avanti, per sentire meglio, perché avevi qualcosa di unico da dire. Mi chiedo cosa diresti nel vedere la moltitudine di soggetti che fanno di tutto per autopromuoversi. Geni della tecnologia, luminari della finanza, multimiliardari istantanei che sgomitano nel mondo reale e in quello virtuale, alimentando il teatro di chi non conosce la vergogna. Non diresti nulla. In questo mondo non c’è più posto per monomaniaci, ossessivi, compulsivi come te.
Rimane il tuo ricordo, la tua capacità di sognare. C’è sempre meno spazio per i sogni. Per questo occorre non smettere di sognare e sognare più forte. Il mare che ti fa da tomba, perché è in mare che si seppelliscono i marinai e tu lo eri, ti avvolga e protegga con la sua immensità. Grazie Neil.