Vivere su un pendio comporta instabilità, precarietà. Se non è trattenuto, tutto rotola giù. Bisogna sapersi aggrappare e lì rimanere. Non solo. Gli antichi alpigiani hanno dovuto farsi in quattro per rendere l’inclinazione percorribile: zigzag, gradini, mancorrenti, fili a sbalzo, teleferiche. E hanno escogitato protesi indispensabili: ramponi, scarpe chiodate per i prati, racchette da neve. Poi, dove possibile, è stato necessario annullare il pendio ricavando i famosi terrazzamenti.
Si muove la terra formando porzioni di piano contenute da muri a secco di pietra locale, che seguono in orizzontale le linee isometriche. Prende vita così un paesaggio a strati, dall’aspetto fortificato, possente. E al contempo sinuoso nel suo disegno quieto che segue l’andamento del versante, circondando i promontori, sottolineando le rientranze, correndo rettilineo sui gradienti di pendenza costante. Se dovessimo sommare l’intero patrimonio di terrazzamenti delle Alpi saremmo di fronte a un’opera grandiosa, a un deposito di fatiche immane, paragonabile, che so, alla Muraglia cinese (nel 2018 i muretti a secco sono diventati patrimonio dell’Umanità Unesco, ma poco importa).
In certi casi il pendio poteva e può essere trasformato in vantaggio, sfruttando la forza di gravità: sull’acqua, per condurre a valle il legname con metodi di flottazione, o sulla neve con slitte per il trasporto del legname e delle persone anche per puro divertimento. A ciò vanno aggiunti i vantaggi dell’esposizione dei versanti, con le differenze climatiche tra l’ubac (nord) e l’adret (il versante solatio). Ma, soprattutto, il pendio può avere un risvolto prodigioso perché permette di spostarsi in verticale, con i frutti che ciò comporta. Coprendo una distanza di tre o quattro chilometri dal basso all’alto si possono attraversare le stesse fasce climatiche che incontreremmo viaggiando in orizzontale per migliaia di chilometri. Dal fondovalle ai ghiacciai – tremila metri di dislivello – può equivalere a un tragitto dal tropico del Capricorno alla Penisola Antartica: circa settemila chilometri.
Sfruttando le differenze climatiche tra alto e basso l’alpigiano ha potuto mettere in atto quel sistema di nomadismo verticale che sono le transumanze a stazioni. D’estate, verso il fresco e i fiori dell’alpeggio estivo. È vero, in montagna l’esistenza è più dura, sul pendio tutto rotola giù. Ma sapendosi adattare, la vita diventa molto più ricca.