Anticipando di un mese la vittoria elettorale, e di un paio la cerimonia della campanella (chissà se Mattarella riuscirà, almeno, ad evitare il festeggiamento del centenario) il proprietario dell’Agenda ha provveduto a donare l’originale, debitamente autografato, a Giorgia Meloni. Con gran dispetto di tutti i propagandisti della secca alternativa – o noi o l’arrivo, anche in Italia, della democratura – il governatore, anzi pardon il presidente del Consiglio, ha ribadito quello che è il cardine del suo pensiero politico. Il pilota automatico.
Era il marzo del 2013. Anche allora si stava per votare, dopo un annetto e mezzo di governo tecnico, quello Monti. Anche quello un mischione repellente di ex governanti, ex oppositori, sedicenti tecnici, ritenuto dalla allora ancora relativamente diffusa grande stampa poco meno di un colpo di genio escogitato al Colle. Dopo qualche settimana un partito fin lì inesistente, i 5 Stelle, sarebbe assurto a prima forza sul territorio nazionale. Ma Draghi aveva assicurato: il cammino delle riforme era segnato indipendentemente dall’esito elettorale.
Aveva perfettamente ragione, il come lo ricorderete. Prima un grottesco governo che metteva insieme giaguari e smacchiatori, poi la resa del Parlamento ai 101 sicari renziani, lo “stai sereno“, infine il tentativo di stravolgere quella Costituzione troppo antifascista, verso i più moderni parametri di JpMorgan e di Roberto Benigni. Oggi Draghi, assaggiata come Monti la difficoltà del governare ma di lui più furbo, si ripete. In fondo io non servo: quello che si deve fare si farà. Allora sotto il vigile controllo dei meccanismi sul debito, stavolta sotto quelli dei prestiti e finanziamenti del Pnrr.
Aveva provato a convincere i partiti già nella conferenza di fine anno, sperando nel trasloco quirinalizio, poi nei due feroci discorsi di fiducia che avevano il preciso obiettivo di sterilizzare l’unica, vaga possibilità per noi di rimettere le mani sul volante, almeno in parcheggio, sperimentata con il Conte 2. Obiettivo perfettamente centrato, almeno questo. Adesso, tra un mesetto, il quarto partito in due legislature farà il suo botto verticale di voti; il quarto leader, risum teneatis, dopo Renzi, Di Maio e Salvini si appresterà ad estrarre l’apriscatole. I precedenti, con abilità degna di Stanlio e Ollio, inebriati dal potere si sono autosbudellati, lasciando la scatoletta appena intaccata. Stavolta la latta è talmente sottile che la Seconda Repubblica, quella vera, è più che probabile.
E come detto, il governatore non fa una piega. Chissene delle devianze, dell’importazione di buoni schiavi venezuelani che non pongono nemmeno il problema del battesimo, del presidenzialismo e di tutti gli altri orrori che fuoriescono dalla versione casereccia di Regan McNeil e dei suoi alleati. Quelli sono gli orpelli, le decorazioni natalizie del racconto democratico, come la visita alla Cgil devastata, una bella foto e via senza minimamente affrontare il problema.
Non fa una piega perché in effetti questa o quelli pari sono, finché i miliardi vanno dove debbono, e si continua ad appoggiare la “oh che bella guerra”: pensate come sarà difficile essere filo Nato per Crosetto o La Russa, una fatica. Lui, il Drake, dovrebbe essere la fortezza Bastiani del liberalismo competente, ma nel momento del bisogno, almeno quello individuato dai vari Letta e Calenda, mentre i Tartari finalmente arrivano, se ne va come un Drogo qualunque, stacca il telefono.
E così a riflettere su cosa non è andato restiamo noi votanti, da soli. Perché se tra un mese un partito neo o post fascista vincerà le elezioni, qualcosa, qualcuno di sbagliato ci sarà stato, o no? Mica possiamo cavarcela col destino cinico e baro. Sappiamo già però a chi saranno affibbiate tutte le colpe. Conte, i 5 Stelle, Il Fatto, i loro elettori, i loro lettori. Non ci foste stati voi, ci saremmo goduti un bel governo: Letta, Renzi, Calenda, Bonino, Gelmini, Carfagna, ullallà era una cuccagna.