Non si può parlare dell’omicidio di Daria Dugina senza prima dire due parole sul padre, che i media occidentali continuano a descrivere come “l’ideologo di Vladimir Putin”. Come tale Alexander Dugin si è “venduto” negli ultimi anni soprattutto agli ingenui esponenti di gruppi populisti e sovranisti europei: ha avuto gioco facile anche grazie al fatto che nel 2014 le sue idee sul destino della Russia come nazione-guida dell’Eurasia sembrarono utili per giustificare l’accaparramento di terre ucraine. Così, all’improvviso, questo sedicente “filosofo” appassionato di satanismo e neopaganesimo, cristiano ortodosso “eretico” ostile al Patriarcato di Mosca e influente solo presso circoli di nazionalisti e neofascisti, si ritrovò su ogni canale televisivo, coi suoi libri che interessarono a tutti gli editori e con un’offerta per insegnare all’Università statale di Mosca. Poi, però, il Cremlino decise contro l’annessione a titolo definitivo delle “Repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk: Dugin, allora, non servì più a niente. In poco tempo, le comparsate in televisione finirono, la cattedra svanì nel nulla e per vendere i suoi libri dovette sudare sette camicie. Per questo, cominciò a proporsi come “il Rasputin del XXI secolo”, col tacito assenso del Cremlino, perché così poteva mettere il naso in ambienti politici e imprenditoriali stranieri e fare il gioco del regime.

Per capire quali scenari si celino dietro alla morte di Daria Dugina è importante anche capire chi fosse davvero la figlia del noto “filosofo”. Era una giornalista di primo piano che lavorava per un gruppo che Washington dice essere di proprietà dell’uomo d’affari russo Evgeny Prigozhin, sotto sanzioni in Occidente per essere il padrino sia del gruppo di mercenari Wagner che della famigerata “fabbrica di troll” sui social media. Per questo suo ruolo era soggetta a sanzioni: il governo britannico la descriveva come una “produttrice di disinformazione di alto profilo in relazione all’Ucraina e all’invasione russa dell’Ucraina”. Di nuovo, non parliamo di un “alto papavero” né di un’eminenza grigia, ma di un agente al servizio del potere.

Dopo l’omicidio, Mosca ha parlato di un caso di terrorismo di matrice ucraina. L’agenzia Tass e gli altri media vicini al Cremlino non hanno ignorato la risposta di Mikhail Podolyak, consigliere dell’ufficio del Presidente ucraino, il quale ha decisamente negato il coinvolgimento di Kiev nell’esplosione dell’auto. La “killer con prole” venuta dall’Ucraina e uscita – non si sa come, visto che non risulta che la frontiera Nato-Russia sia così porosa – attraverso l’Estonia, è sembrata più un diversivo che un tentativo di alzare la tensione. Poi, se Kiev avesse voluto colpire in Russia, perché farlo con una propria cittadina e per giunta affiliata – secondo i servizi russi – al Battaglione Azov? Sarebbe bastato armare la mano di un ceceno o un russo arrabbiato o alla ricerca di denaro, o anche di un ucraino qualsiasi fra i milioni che vivono in territorio russo. Va detto che lo scenario di infiltrati o partigiani ucraini è quello che lo stesso Dugin ha sostenuto fin dal principio. Lo ha fatto, si badi bene, non chiedendo un’azione vendicatrice una tantum -tipo un bombardamento massivo o contro obiettivi istituzionali – ma domandando la vittoria russa.

Insomma, chi ha ammazzato questa giovane donna? È vero che si sono autoaccusati non meglio identificati gruppuscoli armati di oppositori interni a Putin, ma per adesso la galassia dei nemici del regime pare al massimo capace di compiere sabotaggi e semplici azioni dimostrative, non certo di confezionare, piazzare e far detonare bombe. Poi, perché colpire Daria Dugina quando ci sono commentatori che abbaiano con molta più rabbia e venerano Putin più platealmente? Per l’establishment russo non si tratta di un attacco diretto né di una perdita: Dugin, come abbiamo visto, non è l’ideologo ufficiale di Putin, ma al massimo un agente del sistema di una delle tante agenzie di intelligence. Come pensatore politico, poi, è una voce ascoltata solo dall’estrema destra russa.

Se non fra gli oppositori, l’omicidio, allora, ha un mandante fra i siloviki, gli ambienti militari e di intelligence che tengono le leve del potere a Mosca? Se sì, serve per colpire il novello zar? Escludiamo quest’ultima ipotesi: Putin e il “filosofo” di estrema destra percorrono due strade diverse. Di certo, siamo di fronte a un personaggio, Dugin, con una discreta influenza sugli ambienti nazionalisti russi. Eliminare lui avrebbe reso le cose più semplici al Cremlino nel confrontarsi proprio con i nazionalisti, fortemente critici per gli insuccessi militari: la sua morte avrebbe offerto al Cremlino un martire da venerare e l’opportunità di mettere a tacere una voce critica “di destra”. Secondo il noto analista Marco Galeotti, “è improbabile che l’uomo che una volta chiedeva una Russia che si estendesse “da Dublino a Vladivostok” sarà placato e i nazionalisti che sono già insoddisfatti di Putin – non hanno problemi con lui che invade l’Ucraina, ma solo con lui che lo fa così male – sentiranno un motivo in più per essere arrabbiati”.

Ai russi, in particolare ai moscoviti, le modalità di questo omicidio hanno fatto tornare in mente gli anni Novanta, quando le auto saltavano in aria spesso e per motivi abietti: un amore respinto, un debitore arrabbiato o un socio in affari criminale. Ed è proprio per questo che, per adesso, il Cremlino tiene un profilo basso: qualunque cosa va bene, anche accanirsi ancora di più sull’Ucraina, ma non essere accostati a quel periodo e alla sua instabilità.

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