L’ultimo numero del settimanale britannico The Economist (di cui la Exor della famiglia Agnelli Elkann controlla il 43%) è dedicato alle sanzioni contro la Russia e al tentativo di trarre un bilancio di questi primi 6 mesi di applicazione delle misure. Bilancio che non è esaltante. Nonostante l’impegno dell’Occidente nell’imporre interventi economici drastici “sino ad ora la guerra delle sanzioni non sta andando come previsto”, scrive il settimanale. Il principale problema, si legge, è che “il colpo da knockout non si è concretizzato”. Emerge infatti che “il Pil russo si ridurrà del 6% nel 2022, come calcola ora il Fondo monetario internazionale, molto meno del calo del 15% che molti si aspettavano a marzo”.

L’Economist rimarca poi come: “La vendita di energia genererà quest’anno un surplus di 265 miliardi di dollari, il secondo più grande al mondo dopo la Cina”. Inoltre, dopo una fase di crisi, “il sistema finanziario russo si è stabilizzato e il Paese sta trovando nuovi fornitori per alcune importazioni, inclusa la Cina. Nel frattempo, in Europa, la crisi energetica potrebbe innescare una recessione”. L’arma delle sanzioni ha quindi molti difetti e quello principale è rappresentato dalla sproporzione fra le azioni intraprese e le conseguenze su “autocrazie brave ad assorbire il colpo iniziale di un embargo perché possono controllare le loro risorse”.

Il settimanale ricorda come, dopo le esperienze di Iraq ed Afghanistan, le sanzioni sembravano offrire un alternativa all’Occidente. Un modo di esercitare potere non con le armi ma attraverso il controllo delle reti finanziarie e tecnologiche al centro dell’economia del 21esimo secolo. Negli ultimi 20 anni le sanzioni sono state varate per punire le violazioni dei diritti umani, isolare Iran e Venezuela e penalizzare aziende come il colosso cinese delle tlc e del 5g Huawei. Ma l’embargo russo ha portato le sanzioni ad un nuovo livello, cercando di paralizzare l’undicesima economia più grande del mondo nonché uno dei maggiori esportatori di energia, grano e altre materie prime. Cosa sinora non riuscita.

L’effetto delle sanzioni, se mantenute, è destinato ad aumentare nel tempo. Il settimanale ricorda, ad esempio, come entro il 2025 un quinto degli aerei civili russi potrebbe essere bloccato per mancanza di pezzi di ricambio. Il rischio per Mosca è di diventare sempre più dipendente dalla Cina, divenendone una sorta di succursale. Ma nell’immediato i risultati sono stati deludenti anche alla luce del fatto che sono ben 100 i paesi nel mondo che non partecipano alle misure ritorsive verso la Russia e questo consente al paese colpito di adattarsi al nuovo contesto. L’Economist ne deduce che andrebbero abbandonate le illusioni per cui anche il contenimento della Cina possa basarsi esclusivamente su questo tipo di politiche. Pechino potrebbe facilmente vendicarsi “affamando” l’Occidente di elettronica, batterie e prodotti farmaceutici, lasciando vuoti gli scaffali di Walmart e innescando il caos. Invece la lezione di Ucraina e Russia è che affrontare le autocrazie aggressive richiede un’azione su più fronti. Il pugno duro è essenziale.

Secondo l’Economist “la buona notizia è che, 180 giorni dopo l’invasione, le democrazie si stanno adattando a questa realtà. Le armi pesanti si stanno riversando in Ucraina, la NATO sta rafforzando i confini dell’Europa con la Russia e l’Europa si assicura nuove fonti di gas e accelera il passaggio all’energia pulita. L’America sta riducendo la sua dipendenza dalla tecnologia cinese e sta esortando Taiwan a migliorare le sue difese militari. Il problema è che ogni autocrazia, non ultima la Cina di Xi Jinping, sta anche studiando la guerra delle sanzioni con la Russia, imparando come farvi fronte. L’Ucraina segna una nuova era di conflitto del 21° secolo in cui gli elementi militari, tecnologici e finanziari sono intrecciati. Ma non è un’era in cui l’Occidente può presumere di avere la preminenza. Nessuno può contrastare l’aggressione solo attraverso dollari e semiconduttori”.

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