Alla fine di luglio, subito dopo l’annuncio dell’aumento di tassi d’interesse da parte della Banca centrale europea, Christine Lagarde, che la guida, ha annunciato un meccanismo per gestire l’eccessiva volatilità degli spread. L’obiettivo: l’adeguamento più rapido e tranquillo delle economie alle variazioni dei tassi. In cambio di questa protezione tutti i membri della Bce hanno approvato all’unanimità lo strumento di protezione della trasmissione (Tpi). Ed ecco cosa garantisce: tutti i governi dei paesi membri della Bce potranno beneficiare del meccanismo di sostegno; qualora la volatilità dello spread sia ingiustificata e le condizioni di mercato siano fuori controllo, l’intervento della Bce sarà di entità illimitata qualsiasi sia il livello dello spread.
Subito dopo l’annuncio iniziale del Tpi, lo spread del Btp si è ridotto ma quando Lagarde ha chiarito che l’intervento era condizionato, lo spread del Btp si è ulteriormente ampliato arrivando a 2.35 pc, un nuovo massimo per il 2022. Ed ecco le condizioni: rispetto del quadro di bilancio dell’Unione Europea; assenza di gravi squilibri macroeconomici; traiettoria sostenibile del debito pubblico; politiche sane in linea con le politiche Pnrr. Con o senza Mario Draghi, dunque, l’Italia dovrà continuare a seguire esattamente lo stesso schema da lui offerto. In altre parole, chiunque governerà avrà le mani legate.
L’improvvisa impennata dello spread degli ultimi giorni riflette i timori di alcuni settori della finanza, in particolare gli hedge funds, riguardo al rispetto dell’agenda Draghi da parte della destra, ormai data sicuramente vincente alle prossime elezioni. Si teme che l’euroscetticismo manifestato fino alla caduta del governo Draghi da parte dell’opposizione di Fratelli d’Italia, ad esempio, rivenga a galla dopo la vittoria elettorale e metta a repentaglio il rispetto delle regole imposte dalla Bce. E’ vero che Giorgia Meloni ha cambiato registro riguardo a molti temi, allineandosi con la politica europeista e atlantista di Draghi, ma la domanda che i mercati si pongono è se sarà in grado di imporre alla popolazione che l’ha votata, e anche a quelli che non l’hanno fatto, l’agenda economico-finanziaria Draghi durante un autunno e inverno di stagflazione.
Le condizioni economiche e finanziarie italiane sono critiche, a luglio il fondo monetario ha messo in guardia che l’embargo sul gas russo produrrà una contrazione economica in Italia superiore al cinque per cento, a meno che le altre nazioni non condividano le loro risorse energetiche. L’aumento dei tassi d’interesse della Bce renderà la situazione italiana ancora più critica, costringendo il governo a fare tagli in linea con le politiche di austerità predilette da Bruxelles.
A riprova la scommessa degli hedge funds, simile a quella del 2008, contro il debito italiano, al momento pari a 2.300 miliardi di euro ed equivalente al 150 per cento del Pil, valore lontanissimo dal massimo consentito dall’Unione europea del 60 per cento. Di questo si dovrebbe parlare in campagna elettorale, invece di accanirsi sui nominativi delle liste o sul mantenimento di misure come il reddito di cittadinanza che rappresentano una goccia nell’oceano del debito pubblico. Se il percorso tracciato è irremovibile, è indifferente chi siederà negli spalti del parlamento e chi guiderà il governo.
Meglio sarebbe riflettere sul perché la vittoria del Movimento 5 Stelle alle scorse elezioni non abbia prodotto cambiamenti radicali nelle politiche di gestione del paese, politiche talmente subordinate dalle gravissime condizioni economiche finanziarie dell’Italia all’interno dell’eurozona da impedire qualsiasi cambiamento radicale. Che questo sia un bene o un male nessuno può stabilirlo, un’alternativa non è mai stata tentata tanto meno implementata. Né lo sarà nell’immediato.