di Federico Lobuono*
Il 25 settembre, per la prima volta, i giovani tra i 18 e i 25 anni potranno votare anche per l’elezione del Senato. Le previsioni sulla partecipazione giovanile al voto sono tutt’altro che incoraggianti. Dati alla mano, alle ultime elezioni politiche la percentuale di astensionismo ha raggiunto il 30% nella fascia tra i 18 e i 30 anni. Guardando alle Europee del 2019, solo un under 30 su due è andato a votare. Ma perché un giovane sceglie di astenersi dalla vita politica del proprio Paese? Le ragioni sono molteplici.
In questi giorni, i partiti pubblicano i loro programmi elettorali e le proposte che riguardano Millennials e Generazione Z scarseggiano. I pochi punti programmatici presenti sono perlopiù avanzati da adulti convinti di saper interpretare i bisogni dei ragazzi. Non poter essere parte attiva nella stesura dei programmi elettorali allontana dalle urne una generazione – la mia – che non vuole più limitarsi a subire le scelte di qualcun altro.
La mancanza di coinvolgimento non è l’unica causa del crescente astensionismo tra gli under 30. Persino il sistema elettorale disincentiva la partecipazione al voto. Non si è trovata, ad esempio, la soluzione per consentire agli studenti fuori sede di esercitare il proprio diritto di voto senza dover tornare nella propria città di provenienza. È un circolo vizioso: meno i giovani si sentono rappresentati dalla politica, meno questi si recano alle urne. Meno i giovani si recano alle urne, meno sono rilevanti negli impegni elettorali assunti dai politici. Per mere questioni numeriche, dunque, ai partiti conviene di più assecondare l’elettorato anziano: meglio alzare le pensioni a mille euro che pensare a una riforma del sistema universitario italiano.
Anche l’incapacità delle classi dirigenti di portare avanti battaglie identitarie per paura di risultare minoritarie ha portato tanti ragazzi e tante ragazze a disaffezionarsi dalla politica. Gli stessi giovani che nelle piazze hanno chiesto e continuano a chiedere maggior impegno per ius scholae, diritti Lgbt, diritto alla casa, diritto allo studio. Temi di giustizia sociale, baluardi della sinistra degli anni ‘60 e ‘70 che sarebbero attuali oggi più che mai. Invece assistiamo a forze politiche che fanno campagna elettorale invocando fantomatici referendum, come quello per abolire il reddito di cittadinanza. I partiti che fino ad oggi hanno incarnato la lotta per i diritti tagliano fuori i soggetti che hanno provato a rappresentare un’esigenza sociale e preferiscono provare a costruire un rapporto, fallimentare, con chi si definisce “riformista”, un aggettivo abusato e che può significare qualsiasi cosa.
In questi anni, la politica ha escluso la mia generazione dai processi decisionali. Ma allora siamo noi che non vogliamo partecipare o sono loro che non vogliono permetterci di sederci al tavolo? Fa sorridere pensare che, in ogni campagna elettorale, ascoltiamo promesse di cambiamenti epocali elaborate senza coinvolgere chi dovrebbe essere protagonista di quelle riforme. Oggi è facile addossare la responsabilità sui giovani, tacciandoli di essere “fannulloni”, “disinteressati” e “individualisti”, quando la verità è che quei ragazzi non hanno mai avuto le stesse opportunità dei loro genitori.
Ogni giorno nascono sulla rete iniziative promosse da ragazzi e ragazze che, senza particolari mezzi economici, riescono a veicolare un messaggio di proposta grazie al potere della condivisione. Se la politica desidera davvero tornare a occuparsi della mia generazione, occorre che anche a noi venga dato un posto ai tavoli decisionali. Argomenti come movida, diritti, trasporti, scuola, università, periferie, tutela delle nuove professioni e della giusta retribuzione salariale non possono essere discussi senza coinvolgerci. Attenzione, non si tratta di giovanilismo fine a se stesso o di considerare una generazione prioritaria rispetto a un’altra.
Qualche secolo fa, uno slogan coniato dai coloni americani recitava: chi paga le tasse ha diritto a essere rappresentato. Magari non tutti i miei coetanei sono contribuenti, non avendo ancora iniziato un percorso lavorativo. Ma il debito pubblico lo pagheremo eccome: allora è lecito pretendere dalla classe politica che ai giovani non sia lasciato solo il compito di proporre, fuori dai punti nevralgici dell’amministrazione pubblica, ma che a essi sia dato lo spazio per decidere, e quindi incidere, per davvero.
*Attivista politico e Presidente de “La Giovane Roma”