A motivo della siccità e delle violenze dei gruppi armati terroristici che hanno impedito ai contadini di coltivare la terra, il Niger è quest’anno, una volta di più, colpito da una grave crisi alimentare. Secondo il governo oltre quattro milioni di persone si trovano in stato di insicurezza alimentare “severa”, cioè circa il 20 per cento della popolazione. Il tasso di malnutrizione acuta dei bambini rischia di essere del 12,5 per cento. Nello stesso articolo, pubblicato da Le Monde e l’AFP, si nota che il Niger si appresta a “provocare” delle piogge con l’aiuto di aerei e di prodotti chimici adatti a questo scopo.

La prima nostalgia, dopo un mese dal ritorno in “patria”, è quella del luogo. Così come per le parole, tutte marcate dall’uso e dall’abuso, anche i luoghi non sono “innocenti”. “Sguardare” il mondo da qui non è lo stesso che osservarlo dal Sud perché è dal “sottosuolo” della storia che si colgono con maggiore eloquenza le sofferenze e le violenze che altrimenti passerebbero inosservate. La perdita di ciò che è essenziale sembra particolarmente marcare parte del nostro mondo. Mentre altrove, ad esempio, si trova naturale ringraziare Dio per la vita di ogni giorno, da questa parte del mondo occorre talvolta persino di maledirla.

Molti, infine, si domandano se valga la pena trasmetterla ad altri, per timore di non viverla appieno nell’incertezza. La perdita delle proporzioni, tragica conseguenza dello smarrimento nell’effimero, comporta ciò che il libro della Genesi aveva raccontato nel mito della Torre di Babele. In esso la confusione delle lingue è una conseguenza del tentativo di darsi un nome e un destino, tramite una torre che tocchi il cielo, e appare come una dittatura anticipata del “pensiero unico”. Tentativo destinato a fallire perché ammalato di un potere totalitario.

Quanto accade nella nostra società è una cacofonia che rivela quanto l’amico Salvatore Bravo rileva in un articolo pubblicato di recente… “La verità è scomparsa con le parole che la indicano. I lavoratori non hanno le parole per descrivere e comunicare la loro condizione, pertanto sono in una trappola linguistica… Società schizoide in cui si vive lo sfruttamento, ma lo sfruttato nomina la propria condizione con le parole del padrone. Se a un lavoratore si rubano le parole non può che essere una semplice funzione produttiva in un immenso campo di sfruttamento” (Da Sinistrainrete).

Quanto l’autore citato riferisce ai lavoratori dovrebbe essere esteso alla società nel suo insieme e alla nostra “politica” in modo particolare. In tante culture tradizionali africane la parola è sacra e divina perché racchiude in essa vita e morte. Una sacralità che crea, racconta, promette, raffigura, forma e si trova, non da oggi, svilita e tradita. La perdita più grande, in una società, è quella delle parole e non ci sarà cambiamento possibile senza una loro “ricreazione”. Questo, assieme ad altri, don Milani l’aveva ben compreso e vissuto coi suoi bambini, contadini e scolari nella scuola di Barbiana… “La parola è la chiave fatata che apre ogni porta… quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata. Un’utopia? No!”. (Lettera al Giornale del Mattino, non pubblicata).

Persino il pudore, così prezioso e umile, è stato evacuato dal nostro lessico sociale e politico e più ancora dalla modalità con cui interpretare il nostro immaginario simbolico. Esso è stato tradizionalmente e forse eccessivamente legato alla sfera sessuale e dunque liquidato coi cambiamenti occorsi in questo ambito negli ultimi decenni in particolare. Il senso di riserbo, vergogna e disagio nei confronti di parole, allusioni, atti, comportamenti che riguardano questa sfera, andrebbe esteso a tutto quanto tocca e ferisce la dignità della persona. Il ritegno, la vergogna, la discrezione e il rispetto per la sensibilità altrui sembrano essere stati espunti dalla prassi corrente delle nostre relazioni quotidiane. Le recenti “passerelle” dei politici nostrani a un noto appuntamento estivo sull’Adriatico ne sono una cifra eloquente e allo stesso tempo desolante.

L’ultima nostalgia, dopo la citata del luogo, è quella del tempo che altrove si misura nel grido di un bimbo che nasce.

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